Cibo e Culture in Corea del Sud: benessere animale e tradizioni alimentari in conflitto
Di Giancarlo Anello
SEUL - Dopo anni di dibattito politico interno e internazionale, il Parlamento della Corea del Sud ha approvato una legge che vieta l’allevamento dei cani, la loro macellazione e la vendita della relativa carne per fini alimentari. Con le nuove misure, le attività vietate saranno punibili con pene che prevedono fino a tre anni di carcere o multe che si aggirano attorno ai 23mila dollari. La legge entrerà in vigore dopo una fase transitoria di tre anni, durante la quale produttori e ristoratori potranno beneficiare di sussidi economici e trovare un’altra occupazione. Secondo un sondaggio dello scorso anno, solo l'8% dei coreani aveva mangiato carne di cane negli ultimi 12 mesi, con un calo rispetto al 2015 del 27%. Meno di un quinto degli intervistati aveva dichiarato di essere favorevole al consumo di questo tipo di cibo. Nondimeno, fino ad oggi le statistiche del governo attestano l’esistenza di circa 1.150 allevamenti di cani, 34 macellerie, 219 distributori e circa 1.600 ristoranti che vendono alimenti a base di carne di cane. La legge è stata approvata da maggioranza e opposizione e ha così risolto una querelle che durava dagli anni ‘80, nata in occasione dei giochi olimpici di Soul. Analoghe campagne di protesta avevano caratterizzato successivi eventi internazionali che la Corea aveva avuto modo di organizzare, come i mondiali di calcio nel 2002 (ospitati assieme al Giappone) e le olimpiadi invernali del 2018.
La carne canina nell’alimentazione tradizionale coreana
In Corea, il consumo della carne di cane risale al 1300 circa, con la dinastia Choson. Questo tipo di carne è utilizzata come cibo o, nel passato, come medicina. Tale consumo si basa culturalmente sulla convinzione che i cani da compagnia e i cani da carne appartengano a specie diverse. La carne di cane si può trovare tutto l’anno e in tutto il Paese, ma viene tradizionalmente consumata durante i mesi estivi, soprattutto nei giorni più afosi dell'anno, chiamati boknal "giorni del cane". La carne di cane è considerata un “cibo caldo” che, secondo un detto popolare, permette di "combattere il fuoco con il fuoco". Alcune ricette sono il bosintang ("zuppa rinvigorente") e il gaesoju (che significa "liquore di cane"). La pratica di mangiare la carne di cane è tuttavia diffusa in molti altri paesi asiatici. Nel passato tale alimento ha contribuito a fronteggiare gravi carenze di cibo e carestie. Con la globalizzazione e il progressivo sviluppo economico del paese sudcoreano, la contraddizione tra la conservazione di questa tradizione culinaria e la reputazione internazionale di paese “civile” si è fatta stridente.
I precedenti normativi e il movimento internazionale sul benessere animale
Come accennato, il recente provvedimento legislativo è il risultato di un processo di riforma legislativa che ha visto alle sue origini ragioni interne ed esterne. A livello domestico, fin dagli anni ‘60 la promozione di politiche volte a garantire un maggiore benessere animale si sono concretizzate in misure sanitarie e locali, applicate in maniera intermittente. In base ad una vecchia legge sul bestiame del 1963, i cani in Corea erano definiti legalmente come "animali domestici" e non erano considerati “bestiame” e carne da allevamento. Nel 1984, la carne canina era stata bandita con norme locali da Seul e classificata come “cibo disgustoso”, ma queste misure erano state largamente disapplicate. A livello internazionale, come accennato, numerose critiche di “barbarie” e di “inciviltà” hanno preso di mira la Corea del Sud e a partire dagli anni ‘80. Nel periodo precedente alle Olimpiadi del 1988, molte organizzazioni non governative (ONG) locali e internazionali avevano promosso campagne di pressione nei confronti del governo coreano contro il commercio e la ristorazione a base di carne di cane. In effetti, tali campagne erano il frutto di un ampio movimento internazionale che, a partire dalle fine degli anni ’70, aveva iniziato a tutelare in vari modi il benessere animale. Nel 1978, ad esempio, l'UNESCO aveva approvato una Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Animale in cui si denunciavano “i trattamenti cattivi o atti crudeli”, auspicando uccisioni di animali, ove necessarie, in maniera istantanea e indolore. Dal 1980, ONG internazionali come la People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) hanno promosso campagne di sensibilizzazione e di protezione del benessere animale, in base al semplice principio per il quale gli animali non sono creati per essere mangiati, indossati, sperimentati o usati per l'intrattenimento degli esseri umani. Anche le istituzioni europee hanno adottato diversi provvedimenti per tutelare il benessere animale fin dal 1974. Inoltre, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), che comprende 30 membri, tra cui la Corea del Sud dal 1996, ha istituito un gruppo di lavoro che si occupa di sicurezza alimentare nel 1999, affrontando, tra l'altro, il problema di standard comuni per il benessere animale. In Corea del Sud, dal 1991 opera la Korea Animal Protection Society (KAPS), dapprima con lo scopo di assistere gli animali feriti, quindi con il proposito di promuovere iniziative legali per la protezione animale, incluso un provvedimento di divieto generalizzato della carne canina. Nel 2002, altri gruppi di attivisti hanno fondato la Coexistence of Animal Rights on Earth (CARE), che si dedica a risolvere i problemi degli animali in Corea, come lo smarrimento, la crudeltà sugli animali domestici e, appunto, la macellazione e il commercio della carne di cane.
“Diritti degli animali” e “diritti culturali”: due categorie in conflitto
Il termine tabù alimentare è spesso utilizzato da antropologi e nutrizionisti per classificare l'ampia gamma di casi in cui sostanze potenzialmente consumabili (e con un potenziale valore nutrizionale) sono evitate o classificate come non commestibili per ragioni culturali. Nelle tre campagne citate in precedenza, tale espressione non è stata mai utilizzata dai promotori delle proteste e delle riforme che hanno preferito utilizzare un linguaggio normativo, legato ai “diritti degli animali”, alla loro protezione e al loro benessere. Nondimeno, il dibattito internazionale sul consumo della carne di cane in Corea è stato percepito come un vero e proprio conflitto culturale prima che giuridico.
Da un lato, le associazioni che hanno sostenuto l’iniziativa di legge hanno adottato la visione promossa dagli animalisti internazionali. Come loro, hanno descritto il consumo di cani come "atto atroce", paragonabile alla schiavitù e al cannibalismo e hanno sostenuto l’incompatibilità di tali pratica con i parametri di civiltà propri della comunità internazionale contemporanea; hanno sottolineato come questo tipo di alimentazione fosse “arretrata” o “arcaica”, soprattutto in un contesto, come quello della Corea del Sud che, negli ultimi decenni, si è reso protagonista di un processo di innovazione tecnologica ed economica straordinario.
D’altro lato, c'è chi ha valutato che le osservazioni critiche provenissero specialmente da paesi stranieri e fossero il risultato della mancanza di conoscenza e comprensione della storia coreana, delle "usanze culinarie uniche" della Corea, interpretandole come un insulto verso tutti i coreani. All’interno di questa fazione si sono schierati politici conservatori e gruppi nazionalisti che hanno promosso petizioni on-line a difesa della cultura culinaria tradizionale, sostenendo che l’integrità nazionale e culturale era minacciata o violata dalle pretese degli animalisti. Le loro argomentazioni si sono soffermate sul dato che il consumo della carne di cane non comporta necessariamente maltrattamenti o ingiustizie sugli animali (con l’applicazione di metodi di macellazione etici) e, in secondo luogo, che l'uccisione di cani non è moralmente peggiore rispetto alla macellazione delle mucche in Europa e negli Stati Uniti. Queste posizioni hanno enfatizzato la natura “culturale” della posizione dei sudcoreani di coltivare le proprie abitudini alimentari tradizionali, anche se considerate aberranti da altre culture occidentali.
Di fatto, quando il governo coreano ha dovuto affrontare le proteste come co-ospite della Coppa del Mondo di calcio del 2002, esso non ha ceduto alle proteste. Piuttosto, funzionari del governo e semplici cittadini hanno accusato i manifestanti di imperialismo culturale per il loro tentativo di imporre i valori occidentali a scapito di quelli nazionali.
Diritto, cibi e culture. Un campo di studio internazionale
Il cibo è certamente un mezzo straordinariamente potente per esprimere l'identità di gruppo, religioso, politico e sociale. I tabù alimentari sono strumenti straordinariamente efficaci per stabilire confini tra sé e gli altri. Con la recente misura legislativa, tra le posizioni polarizzate del passato è sembrata prevalere una sorta di via di mezzo volta a difendere la rispettabilità della Corea del Sud quale potenza internazionale moderna e progressista, in grado di abbandonare le pratiche del passato – legate alla carenza di cibo – e di promuovere il benessere degli animali in una società benestante e globalizzata. Certamente, il discorso globale sui “diritti degli animali”, sostenuto da organizzazioni e ONG internazionali, è relativamente nuovo, specialmente se paragonato ad altre tipologie di rivendicazioni “culturali”, come, ad esempio, i diritti linguistici. Si tratta di un tema giuridico in via di definizione, i cui principi non sono del tutto evidenti né supportati da un ampio consensus nel diritto internazionale. Alcune istanze si stanno affermando con maggiore chiarezza, come nel caso delle richieste di macellazione etica; altre rimangono sfocate come per la definizione stessa di “bestiame”. Per questo motivo, la recente misura legislativa e l’ampio dibattito culturale che l’ha preceduta paiono particolarmente significativi per lo studio di queste tematiche interculturali e transnazionali.