Città di Identità
di Valeria Paganizza
Lo sappiamo. Il solo titolo della notizia non aiuta a capire di cosa si stia parlando. Qualcuno potrebbe essere rimasto perplesso, quando, qualche giorno fa, ha visto pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 28 dicembre 2024, il Decreto 12 dicembre 2024, Definizione dei requisiti per l’assunzione da parte dei comuni della denominazione di «città di identità» e dei requisiti e delle modalità per l’iscrizione nel Registro delle associazioni nazionali delle città di identità.
Per capire di cosa si stia parlando, è necessario fare un salto indietro, nel tempo, di un anno, al 27 dicembre 2023 quando, nella Gazzetta Ufficiale n. 300 fu pubblicata la Legge 27 dicembre 2023, n. 206, Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy. A prescindere dal riprovevole e purtroppo non isolato utilizzo di espressioni anglofone in atti della Repubblica Italiana, di cui il Legislatore sembra proprio non poter fare a meno, quale sia lo scopo della Legge è lampante già nel titolo. Come confermato dall’articolo 1, l’obiettivo delle disposizioni è «valorizzare e promuovere, in Italia e all’estero, le produzioni di eccellenza, il patrimonio culturale e le radici culturali nazionali, quali fattori da preservare e tramandare non solo a fini identitari, ma anche per la crescita dell’economia nazionale nell’ambito e in coerenza con le regole del mercato interno dell’Unione europea». Anche se non in via esclusiva, la ragione “identitaria” è parte della ratio stessa delle norme. Se, come emerge dalla Relazione illustrativa dell’originario Disegno di Legge, queste ultime nascono principalmente in risposta alle dinamiche del mercato successive alla pandemia e influenzate dalla crisi energetica e dal conflitto russo-ucraino, è pur vero che anche l’intento di sostenere la realizzazione di prodotti tradizionalmente legati alla “narrazione” dell’Italia come Paese del “buono” e del “bello” si fonda sullo sfruttamento del cd. «country effect» (per utilizzare, ancora una volta, un anglicismo contenuto nella Relazione illustrativa). Ecco quindi che il la carta dell’«identità» assume un valore (anche) economico su cui puntare.
Per comprendere come la Legge sia intervenuta, in questo senso, si rinvia all’approfondimento pubblicato, in questa sezione del sito, dal prof. Galli «Nasce il “contrassegno per il made in Italy” per la valorizzazione delle eccellenze italiane». Ciò che però interessa, in questo momento, è il solo articolo 40 che istituisce il Registro delle associazioni nazionali delle città di identità. La finalità del registro è consentire la più ampia partecipazione «degli operatori dei settori agricoli nella pianificazione strategica degli interventi di valorizzazione e di promozione delle produzioni di pregio e di alta rinomanza». Le città di identità sono definite dal secondo comma del medesimo articolo come «le città o realtà territoriali che si caratterizzano per le produzioni agricole di pregio, in cui operano organismi associativi a carattere comunale aventi lo specifico scopo di promuovere e valorizzare le identità colturali dei loro territori nei mercati nazionali e internazionali». La definizione è subito precisata dal comma successivo che evidenzia come sia il «comune» in cui ha sede la produzione agricola di pregio ad acquisire la denominazione di «città di identità», a condizione che siano osservati i requisiti da fissare con successivo decreto ministeriale. La puntualizzazione deriva dalla necessaria coordinazione con l’articolo 18 del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 che ammette la concessione del titolo di «città» ai «comuni insigni per ricordi, monumenti storici e per l’attuale importanza».
È proprio il Decreto pubblicato il 28 dicembre a stabilire le condizioni per l’attribuzione della qualifica di «città di identità» e per l’iscrizione nel registro delle associazioni nazionali delle città di identità.
Quali sono i requisiti per assumere la qualifica di «città di identità»?
L’articolo 3, comma 1 del Decreto 12 dicembre 2024 individua, in primo luogo, una condizione “amministrativa”, precisando che la qualifica di «città di identità» può essere acquisita da «città» e «altri comuni». Considerando che l’articolo 2 del Decreto elenca molteplici definizioni da impiegare nell’interpretazione delle norme, il primo passo da compiere sarà verificare quale sia il significato delle due espressioni. Cosa debba intendersi per “città”, già si è anticipato al precedente paragrafo: si considera città il «comune» cui è concesso il titolo di «città» ai sensi dell’art. 18 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ossia il comune insigne «per ricordi, monumenti storici e per l’attuale importanza».
Se è vero che l’articolo 2 del Decreto fornisce una definizione per «città», è però altrettanto vero che non contiene una definizione per «altri comuni». Non resterà che interpretare l’espressione come indicante tutti quei comuni che non avranno potuto acquisire il titolo di «città» ai sensi dell’articolo 18 del D.lgs. 267/2000.
Sussistono però due requisiti (e questa è la seconda condizione), tra loro cumulativi e non alternativi, cui dovranno rispondere i comuni che desiderino acquisire la qualifica di città di identità, indipendentemente dal fatto che siano insigni o meno.
Il primo requisito è che si caratterizzino per le produzioni agricole di pregio.
Il decreto descrive tre ipotesi alternative ricadenti in questa categoria.
- Il territorio amministrativo risulta ricompreso, in tutto o in parte, all’interno della zona geografica di un prodotto agricolo designato da una DOP o IGP. Non ci soffermeremo qui sulla definizione di «prodotto agricolo», anch’essa contenuta nell’articolo 2, giacché solo questa meriterebbe un approfondimento a sé stante (perché no? Potrebbe essere l’oggetto della prossima notizia). Ci limiteremo a dire, per creare aspettativa sui prossimi aggiornamenti, che la stessa non è esente da pleonasmi. Ma passiamo oltre.
- almeno il 30% della produzione di un determinato prodotto agricolo all’interno del territorio amministrativo dovrà essere ottenuto secondo il metodo della produzione biologica ai sensi del Regolamento (UE) 2018/848 e/o in base ad uno dei sistemi di qualità nazionali (Sistema di qualità nazionale di produzione integrata – SQNPI, ai sensi dell’art. 2 della Legge 3 febbraio 2011, n. 4; Sistema di qualità nazionale per il benessere animale – SQNBA, ai sensi dell’art. 224-bis del Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77; il Sistema di qualità nazionale zootecnia – SQNZ, ai sensi del Decreto del Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste 16 dicembre 2022).
- È presente una consolidata tradizione, per un periodo di almeno cinquanta anni, legata ad un determinato prodotto agricolo e connessa a valori di carattere ambientale, storico e culturale. E qui, spazio alla fantasia interpretativa! L’estensore della norma non avrebbe potuto offrire maggior divertimento al giurista che volesse tentare di definire i confini della disposizione.
Il secondo requisito prevede che nelle città e negli altri comuni, tutti caratterizzati, come si diceva sopra, da una produzione agricola di pregio, operino «organismi associativi a carattere comunale aventi lo specifico scopo di promuovere e valorizzare le identità colturali del loro territorio nei mercati nazionali e internazionali», di cui si dirà oltre.
Le associazioni nazionali delle città di identità
Il Decreto del 12 dicembre 2024 individua i requisiti delle associazioni nazionali delle città di identità per poter essere iscritte nel Registro istituito dall’articolo 40 della Legge 27 dicembre 2023, n. 206, sintetizzabili nella forma giuridica dell’associazione riconosciuta; l’assenza di scopo di lucro; la finalità, consistente nel «sostegno e lo sviluppo della qualità delle produzioni agricole e dei territori delle città di identità associate»; un numero minimo di città di identità associate, situate in almeno tre diverse regioni o province autonome e rispondenti ai requisiti richiesti per le città di identità in relazione ai prodotti agricoli di pregio; requisiti specifici di organigramma (presenza di un collegio sindacale o di un sindaco unico); le finalità statutarie, che pure meriterebbero un approfondimento ad hoc (basti pensare ad un generico e non motivato divieto di ricorso agli OGM); e una certa storicità d’azione, nel senso che le associazioni dovrebbero aver svolto «in modo continuativo, attività nel perseguimento delle finalità statutarie [,,,] nei tre anni antecedenti la data della richiesta di iscrizione nel registro».
Una città di identità potrà partecipare ad una sola associazione nazionale, per ogni singolo prodotto agricolo, direttamente o tramite altri enti di cui fanno parte.
Al momento dell’iscrizione nel registro, ciascuna associazione nazionale potrà indicare un solo prodotto agricolo.
Perché istituire le città di identità?
Qual è il reale significato dell’istituzione delle città di identità e delle loro associazioni nazionali? A parere di chi scrive, l’adozione della Legge del 2023 e del Decreto del 2024 potrebbero essere accompagnate da una molteplicità di significati. In primo luogo, si tratta, con tutta evidenza, di una normativa “ad personam”, istituita per fornire un riconoscimento ufficiale a realtà già esistenti. L’intento emerge già dalla proposta presentata il 03 marzo 2016 (atto della Camera 3653) e3 successivamente entrata nel testo della futura Legge del 2023, durante i lavori parlamentari. La relazione illustrativa della proposta del 2016 si apre infatti con il richiamo all’operato di «formidabili organismi associativi a carattere comunale che hanno lo specifico scopo di promuovere e di valorizzare le identità colturali più autentiche dei loro territori amministrativi, in particolare le colture dell’olivo e della vite unitamente alle relative produzioni, quali l’olio extravergine di oliva e il vino. Si tratta, segnatamente, delle associazioni denominate “Città dell’olio” e “Città del vino”». Ovviamente, il fatto che la specifica previsione della Legge del 2023 e del Decreto del 2024 abbiano come intento il riconoscimento di associazioni e città di identità già esistenti non esclude che, in futuro, possano nascerne di nuove.
Ciò che lascia perplessi è il moltiplicarsi di iniziative riconosciute che altro non fanno se non aggiungere frammentazioni e oneri amministrativi a quelli già esistenti nel settore agroalimentare. Se è vero che il Decreto inserisce la clausola di invarianza finanziaria, le attività connesse all’istituzione, manutenzione e funzionamento del registro, per quanto esso sia di natura meramente ricognitiva (v. la relazione tecnica di passaggio della Ragioneria Generale dello Stato) peseranno, di fatto, sulle attuali risorse umane e finanziarie già assegnate alle amministrazioni competenti. Sul punto, peraltro, la stessa nota di lettura del Servizio del bilancio del Senato ha evidenziato la necessità di «maggiori dettagli circa i dati e gli elementi idonei a suffragare l'ipotesi di invarianza».
A questo punto, si aggiunge quindi il significato politico. Come sta emergendo da molteplici iniziative degli ultimi anni (dall’inapplicabile Decreto legislativo sull’indicazione obbligatoria dello stabilimento, alle norme nazionali sull’indicazione obbligatoria dell’origine per alcuni alimenti, alla legge sulla carne da cellule coltivate, sulla quale si rinvia al contributo della prof.ssa G. Formici, Il lungo viaggio della cell-based meat tra Singapore, USA e Israele, passando per l’Unione europea), il richiamo “identitario” e culturale ritorna regolarmente. E se la volontà di tutelare il patrimonio nazionale come espressione culturale non è di certo esecrabile, è pur vero che l’adozione di nuove norme deve corrispondere ad un reale beneficio collettivo e non ad una mera burocratizzazione.
Per quanto concerne il riconoscimento delle città di identità e delle loro associazioni nazionali e l’istituzione del registro nazionale, l’interrogativo «cui prodest» (al di là di proclami) diventa inevitabile.