Come ti chiami? Mai chiedere a un alimento!
Di Valeria Paganizza
Avete mai pensato al nome di un alimento? Quando mangiamo, di solito ci concentriamo su ciò che è nel nostro piatto, piuttosto che sul modo in cui lo designiamo. Eppure, il nome del cibo è così fondamentale che il legislatore dell’UE ha deciso di disciplinare come sceglierlo e indicarlo.
Quindi, come dobbiamo chiamare quel determinato alimento? Il Regolamento (UE) n. 1169/2011 impone di utilizzare, in primo luogo, la denominazione legale, che corrisponde alla «denominazione di un alimento prescritta dalle disposizioni dell’Unione a esso applicabili o, in mancanza di tali disposizioni, la denominazione prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative applicabili nello Stato membro nel quale l’alimento è venduto al consumatore finale o alle collettività». Ciò significa che, ogni qualvolta un atto dell’UE o una disposizione nazionale o locale stabilisca un termine specifico per un alimento e ogni volta un prodotto corrisponda a quella definizione, l’operatore del settore alimentare dovrà utilizzare quella denominazione. Le attività di etichettatura e marketing non avranno altra scelta: quello è il nome che la legge ha stabilito per quel cibo, quello è il nome che dovrà essere utilizzato. Quindi, ad esempio, cioccolato sarà «Il prodotto ottenuto da prodotti di cacao e zuccheri che […] presenta un tenore minimo di sostanza secca totale di cacao del 35 %, di cui non meno del 18 % di burro di cacao e non meno del 14 % di cacao secco sgrassato». [Allegato I, A, 3, (a) della Direttiva 2000/36/EC, come recepita dai diversi Stati membri]. E se il legislatore non ha disciplinato il nome di un certo prodotto? Beh, in quel caso, sarà utilizzata la denominazione usuale. Come suggerisce l’espressione, si tratta della «denominazione che è accettata quale nome dell’alimento dai consumatori dello Stato membro nel quale tale alimento è venduto, senza che siano necessarie ulteriori spiegazioni». Quindi, se volessimo riferirci ai biscotti, in generale, useremo proprio la parola “biscotti”. Semplice, vero? In realtà, l’operatore del settore alimentare deve prestare attenzione anche nell’identificare la denominazione usuale e assicurarsi che i consumatori non siano ingannati o fuorviati. Secondo il paragrafo 3 dell’Articolo 17 del Regolamento (UE) n. 1169/2011, la denominazione del prodotto alimentare nello Stato membro di produzione non dovrà essere utilizzata nello Stato membro di commercializzazione quando il prodotto alimentare che essa designa nello Stato membro di produzione è così diverso, per quanto riguarda la sua composizione o fabbricazione, dal prodotto alimentare conosciuto con quel nome nello Stato membro di commercializzazione, che anche le informazioni supplementari fornite sull’etichetta non sono sufficienti a garantire, nello Stato membro di commercializzazione, informazioni corrette per i consumatori.
A volte, mancano sia le denominazioni legali che quelle usuali. E allora? In questo caso, l’operatore del settore alimentare utilizzerà una denominazione descrittiva, vale a dire «una denominazione che descrive l’alimento e, se necessario, il suo uso e che è sufficientemente chiara affinché i consumatori determinino la sua reale natura e lo distinguano da altri prodotti con i quali potrebbe essere confuso». Immaginiamo un prodotto da forno o, per i golosi di noi, una crema di nocciole con latte scremato e cacao o, ancora, un piatto pronto, composto da “pollo a cubetti e verdure in salsa di peperoncino rosso con noodles istantanei”: non c'è niente di più descrittivo di questo, vero?
Il quadro normativo sulle denominazioni è completato da ulteriori requisiti che sono essenziali per consentire ai consumatori di fare scelte informate quando acquistano alimenti. Ad esempio, secondo l’Allegato VI del Regolamento (UE) n. 1169/2011, «La denominazione dell’alimento comprende o è accompagnata da un’indicazione dello stato fisico nel quale si trova il prodotto o dello specifico trattamento che esso ha subito (ad esempio “in polvere”, “ricongelato”, “liofilizzato”, “surgelato”, “concentrato”, “affumicato”), nel caso in cui l’omissione di tale informazione potrebbe indurre in errore l’acquirente». Poiché nell’Unione Europea non amiamo avere disposizioni semplici, il legislatore ha incluso anche diverse eccezioni. Siete curiosi? Date un’occhiata al Regolamento!
Come i lettori potranno immaginare, gli operatori del settore alimentare sono tenuti a condurre una ricerca a 360°, per capire se esistano disposizioni “nascoste” sulle denominazioni dei prodotti, prestando attenzione a non ingannare i consumatori e a non colpire interessi sensibili. Un esempio? Provate a immaginare i cd. “food analogues”, vale a dire i prodotti vegetali destinati a sostituire gli alimenti di origine animale: vita dura per gli operatori del settore alimentare! Da un lato, devono prestare attenzione a non usare nomi che siano giuridicamente definiti per categorie specifiche di prodotti. Quindi, per esempio, nell’Unione europea, una bevanda di soia o di riso non potrà essere chiamata “latte”, poiché, conformemente al Regolamento (UE) n. 1308/2013, Allegato VII, parte III, Par. 1, il termine latte indica «esclusivamente il prodotto della secrezione mammaria normale, ottenuto mediante una o più mungiture, senza alcuna aggiunta o sottrazione». Il Par. 2 riserva ulteriori denominazioni per prodotti derivati, indipendentemente dalla fase di commercializzazione (quindi anche quanto questi siano impiegati come ingredienti di alimenti composti): siero di latte, crema di latte o panna, burro, latticello, butteroil, caseina, grasso del latte anidro (MGLA), formaggio, iogurt, kefir, koumiss, viili/fil, smetana, fil, rjaženka, rūgušpiens. Se la disposizione non era abbastanza chiara, la Corte di Giustizia ne ha ribadito il significato con la sua sentenza nella causa C-422/16.
Cosa accade se il nome non è stabilito dalla legge come denominazione legale? Possiamo usarlo per i prodotti a base vegetale? Ad esempio, un operatore del settore alimentare può utilizzare espressioni come “polpette vegetali”, “bistecca vegetale”, hamburger vegetale o simili? Si tratta di una delle questioni più attuali e controverse in materia di etichettatura degli alimenti. Diversi Stati membri dell’Unione europea stanno adottando disposizioni nazionali per vietare l’uso di “nomi legati agli animali” per i prodotti a base vegetale. In Italia, ad esempio, la Legge 01 dicembre 2023, n. 172, che stabilisce disposizioni sul divieto di fabbricare e immettere sul mercato alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti da colture cellulari o tessuti di vertebrati e sul divieto di utilizzare nomi di carne per alimenti trasformati contenenti proteine vegetali, nel suo Articolo 3, vieta l’uso di denominazioni legali, usuali e descrittive riferite a carne, prodotti a base di carne e prodotti principalmente ottenuti da carne per alimenti contenenti esclusivamente proteine vegetali. La legge proibisce anche il riferimento a specie animali e gruppi di specie animali, alla morfologia o anatomia animale, così come i termini caratteristici della macelleria, gastronomia e pescheria, e i nomi di alimenti di origine animale rappresentativi degli usi commerciali. La legge italiana presenta diverse criticità, che spaziano da obiettivi che sembrano contrastare con i principi dell’Unione europea, a una semantica assolutamente discrezionale. La principale debolezza è tuttavia un difetto procedurale che ha determinato la non applicabilità della legge. Trattandosi di norme tecniche, l’atto nazionale avrebbe dovuto essere notificato alla Commissione Europea, come di fatto è avvenuto. Con la notifica, è però iniziato un periodo di sospensione, durante il quale lo Stato notificante non avrebbe potuto adottare l’atto nazionale. Nonostante questa previsione, la legge italiana è stata comunque pubblicata nella Gazzetta Ufficiale nazionale ed è entrata in vigore durante il periodo di standstill, in palese violazione del diritto dell’Unione europea.
Il tentativo di limitare la possibilità di utilizzare denominazioni che richiamano prodotti di origine animale per gli alimenti di origine vegetale è stato attuato anche dalla Francia con il Decreto n. 2022-947 del 29 giugno 2022, sull’uso di determinati nomi per alimenti contenenti proteine vegetali (ora abrogato dal Decreto 2024-144). Con procedimenti paralleli, Protéines France, che rappresenta gli interessi degli operatori del settore alimentare vegetale, da un lato, e l’Unione Vegetariana Europea (EVU), l’Associazione Vegetariana di Francia (AVF) e Beyond Meat Inc., che produce e commercializza prodotti vegetali, dall’altro, hanno impugnato il decreto davanti al Consiglio di Stato francese (Conseil d’État), chiedendone l’annullamento. I ricorrenti hanno sottolineato come il Decreto n. 2022-947 violasse diverse disposizioni del Regolamento (UE) n. 1169/2011, vietando l’uso di parole come “bistecca” o “salsiccia” per i prodotti vegetali, indipendentemente dalla presenza di ulteriori informazioni sulla natura del prodotto. Il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di deferire la questione alla Corte di Giustizia chiedendo se le disposizioni sui nomi degli alimenti possano essere considerate completamente armonizzate o se ci sia ancora spazio, per il legislatore nazionale, per adottare atti che possano stabilire una percentuale massima di proteine vegetali per un alimento, affinché possa recare una denominazione solitamente utilizzata nel settore della macelleria, salumeria e pescheria (C-438/23). Nello specifico, il giudice nazionale ha formulato i seguenti quesiti: «1) Se le disposizioni dell’articolo 7 del regolamento (UE) n. 1169/2011 (1), che prescrivono di fornire ai consumatori informazioni che non li inducano in errore relativamente all’identità, alla natura e alle qualità degli alimenti, debbano essere interpretate come espressamente armonizzanti, ai sensi e ai fini dell’applicazione dell’articolo 38, paragrafo 1, di tale medesimo regolamento, la materia dell’utilizzo di denominazioni di prodotti di origine animale provenienti dai settori della macelleria, della salumeria e della pescheria per descrivere, commercializzare o promuovere alimenti contenenti proteine vegetali, idonee ad indurre in errore il consumatore, in tal modo impedendo a uno Stato membro di intervenire in tale materia tramite l’adozione di misure nazionali che disciplinino o vietino l’utilizzo di tali denominazioni.
2) Se le disposizioni dell’articolo 17 del regolamento (UE) n. 1169/2011 — che prevedono che la denominazione con cui l’alimento è identificato sia, in assenza di una denominazione legale, la sua denominazione usuale o una denominazione descrittiva — in combinato disposto con le disposizioni del suo allegato VI, parte A, paragrafo 4, debbano essere interpretate come espressamente armonizzanti, ai sensi e ai fini dell’applicazione dell’articolo 38, paragrafo 1, di tale medesimo regolamento, la materia del contenuto e dell’utilizzo delle denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, che designano alimenti di origine animale per descrivere, commercializzare o promuovere alimenti contenenti proteine vegetali, anche in caso di totale sostituzione di ingredienti di origine vegetale a tutti gli ingredienti di origine animale che compongono un prodotto alimentare, in tal modo impedendo a uno Stato membro di intervenire in tale materia tramite l’adozione di misure nazionali che disciplinino o vietino l’utilizzo di tali denominazioni.
3) In caso di risposta positiva alla prima o alla seconda questione, se l’armonizzazione espressa operata, ai sensi e ai fini dell’articolo 38, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 1169/2011, dalle disposizioni degli articoli 7 e 17 di tale medesimo regolamento, in combinato disposto con le disposizioni del suo allegato VI, parte A, paragrafo 4, dello stesso, osti a che:
a) uno Stato membro adotti una misura nazionale che preveda l’imposizione di sanzioni amministrative in caso di mancato rispetto delle prescrizioni e dei divieti derivanti dalle disposizioni di tale regolamento.
b) uno Stato membro adotti una misura nazionale che stabilisca i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali continuerebbe ad essere autorizzato l’utilizzo di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, che designano alimenti di origine animale per descrivere, commercializzare o promuovere alimenti contenenti proteine vegetali.
4) In caso di risposta negativa alla prima e alla seconda questione, se le disposizioni degli articoli 9 e 17 del regolamento (UE) n. 1169/2011 consentano a uno Stato membro:
a) di adottare una misura nazionale che determini i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali è consentito l’utilizzo di denominazioni, diverse da quelle legali, che designano alimenti di origine animale per descrivere, commercializzare o promuovere alimenti contenenti proteine vegetali.
b) di adottare una misura nazionale che vieti l’utilizzo di determinate denominazioni usuali o descrittive, anche quando sono accompagnate da informazioni supplementari che garantiscano un’informazione leale del consumatore.
c) di adottare le misure di cui ai punti 4. a), e 4. b), solo per i prodotti fabbricati sul suo territorio, senza per questo violare il principio di proporzionalità di tali misure».
Per rispondere alle domande, la Corte di Giustizia tiene conto di diverse disposizioni del Regolamento (UE) n. 1169/2011, a partire dall’Articolo 38, che vieta l’adozione, da parte degli Stati membri, di misure nazionali «per quanto riguarda le materie specificamente armonizzate» dall’atto medesimo. Richiamando precedente giurisprudenza (C-485/18), la Corte riconosce che nessuna disposizione del Regolamento (UE) n. 1169/2011 contiene un elenco di materie espressamente armonizzate (punto 51). Si concentra, quindi, su altre disposizioni del Regolamento. Secondo l’Articolo 7, paragrafi 1 e 2, le informazioni sugli alimenti devono essere «accurate, chiare e facili da comprendere» e non devono ingannare il consumatore, in relazione, tra l’altro, alle caratteristiche del cibo, incluse la sua natura, identità e composizione, o suggerendo la presenza di un particolare alimento o ingrediente, quando quel componente è stato in realtà sostituito con un ingrediente diverso. La sentenza richiama anche le indicazioni obbligatorie sulla denominazione dell’alimento, ai sensi dell’Articolo 9 (punto 56) e i requisiti specifici che abbiamo già menzionato nell’identificare quale denominazione debba essere impiegata, ai sensi dell’Articolo 17 (punto 59), da leggere in combinato disposto con le definizioni dell’Articolo 2 e le disposizioni dell’Allegato VI, parte A, punto 4. Quest’ultima disposizione richiede che, quando un «un componente o un ingrediente che i consumatori presumono sia normalmente utilizzato o naturalmente presente [sia] stato sostituito con un diverso componente o ingrediente, l’etichettatura [rechi] - oltre all’elenco degli ingredienti - una chiara indicazione del componente o dell’ingrediente utilizzato per la sostituzione parziale o completa», in prossimità del nome.
Riconoscendo che il diritto dell’Unione Europea non prescrive alcuna denominazione legale per i prodotti a base vegetale, la Corte sottolinea come la valutazione obiettiva che decide se la legislazione nazionale abbia stabilito o meno un nome legale sia di competenza del giudice nazionale. Tuttavia, la Corte fornisce, a quest’ultimo, alcuni elementi per una corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea, riassumibili nei seguenti punti:
1. mentre alcune disposizioni del diritto UE stabiliscono una denominazione legale per determinati prodotti, come il latte (vedi sentenza TofuTown, causa C-422/16), non esiste una denominazione per la generica categoria dei prodotti di origine animale (punti 66 e 78).
2. Il Decreto francese non stabilisce una denominazione legale per i prodotti di origine animale. (punti 67 e 80). Richiede solo l’identificazione di quali denominazioni usuali o descrittive non possano essere impiegate per identificare alimenti contenenti proteine vegetali.
3. Mentre il Regolamento (UE) n. 1169/2011 autorizza le autorità nazionali e locali ad adottare denominazioni legali per i prodotti alimentari quando non siano già state stabilite dalla legislazione dell’Unione (punto 70), non consente loro di stabilire denominazioni usuali o descrittive. (punto 81).
4. La previsione del Regolamento (UE) n. 1169/2011 che richiede che il nome sia accompagnato da informazioni sulla sostituzione di un ingrediente con un componente diverso, qualora il consumatore si possa legittimamente attendere che l’alimento contenga l’ingrediente sostituito offre già una protezione adeguata al consumatore. Rispondendo alla prima e alla seconda domanda formulata dal Giudice del rinvio (con conseguente superfluità di una risposta alla quarta domanda), la Corte considera quindi la materia come completamente armonizzata.
5. Anche se il Regolamento si riferisce alla sostituzione di un ingrediente o componente con un ingrediente o componente diverso, ciò non esclude l’applicabilità del Regolamento quando l’ingrediente o componente che è stato sostituito sia l’unico costituente di quel cibo (punti 87-92).
6. Non viene pregiudicata la competenza, nella vigilanza, delle autorità nazionali che devono controllare il rispetto dei requisiti generali del Regolamento (UE) n. 1169/2011 e che sono tenute a sanzionare l’operatore del settore alimentare responsabile delle informazioni per qualsiasi pratica che possa ingannare il consumatore (punto 95).
7. Sebbene ogni Stato membro abbia il diritto di adottare sanzioni amministrative per la violazione della legislazione alimentare, stabilire un limite massimo di contenuto di proteine vegetali affinché un prodotto possa essere identificato con nomi consueti o descrittivi che richiamino prodotti di origine animale equivale a regolare l’uso di quei nomi (circostanza vietata, come precisato sopra, nel nostro punto 3). Questa è la risposta che la Corte fornisce al terzo quesito formulato dal Consiglio di Stato. (punti 105-106).
La pronuncia della Corte sottende sia una possibile raccomandazione che due suggerimenti, rivolti a tutti quegli Stati membri (compresa l’Italia) intenzionati a vietare l’uso di nomi che richiamino i prodotti di origine animale, per alimenti di origine vegetale. Da un lato, la raccomandazione è di evitare l’adozione di disposizioni che regolino le denominazioni usuali o descrittive. D’altro lato, la Corte sembrerebbe suggerire una doppia via per raggiungere lo stesso obiettivo: per un verso, stabilire denominazioni legali per i prodotti di origine animale (denominazioni che potrebbero generare ulteriori criticità su cui non ci si soffermerà ora); per l’altro verso, fondare le sanzioni sulla idoneità del modo di presentazione e delle informazioni fornite sull’alimento di ingannare il consumatore. Qualcuno coglierà la palla al balzo?