Il Rapporto IPC sulla crisi alimentare nella Striscia di Gaza: la prospettiva del diritto internazionale
Di Ludovica Di Lullo
L’insicurezza alimentare nella Striscia di Gaza
A dicembre 2023 è stato pubblicato il rapporto Integrated Food Security Phase Classification (di seguito IPC), sulla situazione della sicurezza alimentare nella Striscia di Gaza. Si tratta di un’analisi condotta congiuntamente da diversi stakeholders, che mira a qualificare la gravità e le caratteristiche delle crisi alimentari e nutrizionali acute e dell'insicurezza alimentare, sulla base di standard internazionali.
Secondo quanto emerge dall’IPC, l’attuale conflitto nella Striscia di Gaza ha prodotto danni catastrofici alla già preesistente insicurezza alimentare, causati dal danneggiamento e/o dalla distruzione di terreni agricoli e delle infrastrutture essenziali per la produzione e la distribuzione alimentare (agricola, zootecnica e ittica). Inoltre, il quotidiano aggravarsi della situazione, spinge molti osservatori a ritenere imminente il rischio di carestia. A ciò, si aggiunga che l'assistenza alimentare umanitaria e la quantità di prodotti che possono entrare nella Striscia di Gaza, limitati dalle restrizioni alle importazioni imposte dal governo israeliano, sono estremamente inadeguati a coprire i bisogni della popolazione, in pericolo di vita.
Le stime riferiscono che oltre il 90% della popolazione della Striscia di Gaza (circa 2.800.000 persone) stia affrontando livelli elevati di insicurezza alimentare acuta e, tra questi, oltre il 40% si trova in circostanze di emergenza, mentre oltre il 15% è in una condizione di catastrofe. Sebbene sia ben nota l’inestricabile correlazione tra sicurezza alimentare e conflitti armati, i numeri di Gaza rappresentano la percentuale più alta di persone ad alti livelli di insicurezza alimentare che i rapporti IPC abbiano mai classificato per una determinata area o Paese e, secondo gli esperti, si tratta di una situazione senza precedenti per ampiezza, gravità e rapidità dello sviluppo della crisi.
Alla luce di tale contesto, può essere utile riflettere su quali norme del diritto internazionale vengano in rilievo nel caso di specie e, laddove venisse constatata la loro violazione, quali conseguenze ne deriverebbero sul piano della responsabilità degli attori coinvolti e del contenzioso internazionale.
Il diritto internazionale umanitario: l’acceso al cibo nei conflitti armati
Il diritto internazionale umanitario, ovvero quell’insieme di norme poste a tutela della persona umana nel corso dei conflitti armati, siano questi di tipo interno o internazionale, non offre una definizione precisa di termini quali insicurezza alimentare o carestia. Tuttavia, il termine “fame” o “inedia” (starvation) si rinviene all’articolo 54 del Protocollo addizionale I (AP I) e all'articolo 14 del Protocollo addizionale II (AP II). Le due disposizioni, il cui contenuto è pressoché identico, riguardano la protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, ma differisce il rispettivo ambito di applicazione: i conflitti internazionali nel primo caso, e i conflitti non internazionali nel secondo.
Nello specifico, è fatto divieto, da un lato, di utilizzare la fame come metodo di guerra, dall’altro di attaccare, distruggere, rimuove o danneggiare in alcun modo i beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione, con la deliberata intenzione di privarne la popolazione civile.
Più precisamente, il commentario agli articoli dei due Protocolli afferma che il termine “inedia” è generalmente inteso come l'azione di affamare o di sottoporre a carestia, ovvero alla scarsità estrema e/o alla privazione di cibo, nonché di far morire di fame, la popolazione civile.
Il divieto di utilizzo della fame come metodo di guerra, altro non è che una specificazione del più generale principio di umanità, consolidato nel diritto internazionale umanitario, secondo cui è vietato utilizzare ogni metodo di combattimento che sia concepito con lo scopo di provocare mali superflui e sofferenze inutili. A questo si aggiungono, inoltre, i principi di necessità, proporzionalità e distinzione, i quali mirano nel loro insieme ad assicurare, tra l’altro, che sia garantita un’effettiva tutela di coloro che non prendono parte al conflitto, in primis la popolazione civile.
Il diritto internazionale dei conflitti armati, inoltre, dispone regole riguardanti le operazioni di aiuto umanitario. Sebbene sia sempre necessario il consenso dello Stato che esercita un controllo effettivo sulla popolazione, gli Stati non hanno la possibilità di negare le operazioni di soccorso in due situazioni: se, nel corso di un’occupazione, una potenza occupante non è in grado di assicurare l'adeguata fornitura di beni essenziali per la sopravvivenza della popolazione civile; e se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia adottato misure vincolanti che impongano alle parti di acconsentire alle operazioni di soccorso umanitario. Diversamente, il consenso è necessario, non può essere negato arbitrariamente e, una volta ottenuto, le parti al conflitto devono consentire e facilitare il passaggio rapido e senza ostacoli delle operazioni di soccorso umanitario (artt.59 ss. IV Convenzione di Ginevra).
Il diritto al cibo nell’interazione tra diritti umani e diritto umanitario
È ormai, da tempo, ritenuta superata la visione “dicotomica” del rapporto tra diritto internazionale umanitario e “diritto di pace”, secondo cui, in caso di conflitto, solo le norme pertinenti alla prima categoria sarebbero applicabili. Ad oggi, piuttosto, è opinione condivisa che sia necessario un coordinamento tra le disposizioni sui diritti umani e quelle di diritto umanitario applicabili in tempo e luogo di conflitto armato. Ciò vale, dunque, anche per la tutela del diritto umano al cibo.
Seppur già presente nella Dichiarazione Universale del 1948, all’articolo 25, quale parte integrante del diritto a un tenore di vita adeguato alla salute di ogni persona e famiglia, a partire dall’adozione del Patto sui diritti economici, sociali e culturali (il Patto o ICESCR), il diritto al cibo, previsto all’articolo 11, ha trovato una sua formulazione autonoma nel sistema di tutela internazionale dei diritti umani. Secondo tale disposizione, il diritto al cibo, invero, si compone di una duplice dimensione: il diritto di accedere a un cibo adeguato, disponibile e accessibile, ma anche il diritto «fondamentale» a essere liberi dalla fame.
Corroborato dall’interpretazione autorevole offerta dal Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (il Comitato o ICESCR), non solo nel Commento generale No.12 sul diritto al cibo, del 1999, ma anche nei commenti generali relativi ad altri diritti connessi a quest’ultimo, il suo contenuto è oggi consolidato nel diritto internazionale.
Il diritto al cibo, peraltro, è oggi incluso in numerosi strumenti internazionali: dalla Dichiarazione sul nuovo ordine economico internazionale alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, dalla Dichiarazione ONU sui diritti dei contadini e delle altre persone che lavorano nelle aree rurali, alla Convenzione sui diritti del fanciullo, nonché nei molteplici strumenti regionali per la tutela dei diritti umani. Si consideri, inoltre, che la riduzione della fame nel mondo è tra i principali obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (Goal 2 Zero Hunger).
Come affermato dal Comitato, nel General Comment No. 3, del 1990, sulla natura degli obblighi delle Parti, discende dal Patto, in primo luogo, l’obbligo di adottare ogni misura idonea a garantire la progressiva realizzazione e la non regressione dei diritti sanciti nel Patto. Quanto al diritto al cibo, il pertinente Commento generale specifica che questo si estrinseca, a sua volta, nel dovere degli Stati parte di non adottare misure contrarie all’accesso al cibo (respect), di proteggere gli individui da possibili restrizioni (protect) e di promuovere attività che rafforzino le garanzie per la sicurezza alimentare (fulfill). Non essendo previste clausole che delimitino l’applicazione del Patto alla sola giurisdizione territoriale del singolo Stato parte, il valore aggiunto dell’ICESCR risiede, invero, nella sua applicazione extraterritoriale, vale a dire la doverosità di garantire i diritti stabiliti nei confronti di ciascun individuo in qualsiasi modo sottoposto alla giurisdizione o al controllo dello Stato parte.
Il Patto, dunque, può ritenersi una garanzia per il mantenimento della sicurezza alimentare globale, se rispettato.
Le conseguenze giuridiche del mancato accesso al cibo
Il quadro normativo illustrato mette in luce quelli che possono essere ritenuti dei veri e propri obblighi erga omnes, la cui violazione, secondo le norme consuetudinarie sulla responsabilità internazionale, permette persino a Stati diversi dallo Stato direttamente leso di invocare la responsabilità dello Stato responsabile, nonché di adottare misure lecite nei confronti di quest’ultimo, come previsto dal Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per illeciti internazionali del 2001 (art. 48 e 54). Sotto un profilo procedurale, poi, in presenza di tali violazioni sarebbe possibile ricorrere agli strumenti classici di soluzione delle controversie interstatali, siano questi diplomatici o giurisdizionali.
Tuttavia, è possibile estendere le considerazioni sull’accesso al cibo anche all’ambito delle responsabilità penali individuali, tenendo conto che, ai sensi dell’articolo 7(2)(b) dello Statuto della Corte penale internazionale, l’inflizione intenzionale di condizioni di vita inumane, tra cui la privazione dell’accesso al cibo, rientra nella fattispecie dei crimini contro l’umanità. D’altro canto, la violazione delle norme di diritto internazionale umanitario è da ricondurre alla fattispecie dei crimini di guerra, secondo quanto previsto all’art. articolo 8 del medesimo Statuto. Tale disposizione, come riformulata a seguito di un emendamento, proposto dalla Svizzera, e adottato nel 2019, prevede uno specifico crimine di guerra “di fame”, laddove sia utilizzata “intenzionalmente la fame dei civili come metodo di guerra, privandoli di oggetti indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l'ostacolo intenzionale alle forniture di soccorso previste dalle Convenzioni di Ginevra” (Art. 8(2)(b)(xxv)).
Ad ogni modo, al fine di ricondurre tali condotte sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale, è richiesto all’interprete di constatare la sussistenza di ulteriori precondizioni materiali e psicologiche. Quanto al crimine di guerra, è necessario che vi sia un nesso tra la condotta posta in essere e l’esistenza di un conflitto armato, nonché che tale condotta sia commessa, in modo intenzionale e consapevole, in quanto parte di un piano o di una politica o di una commissione su larga scala di tale crimine.
La fattispecie del crimine contro l’umanità, a sua volta, richiede di verificare che la condotta sia parte di un attacco ampio e sistematico, diretto contro la popolazione civile, non per forza armato, ma consistente in qualsiasi forma di maltrattamento della popolazione civile. Infine, ancora una volta, dovrà comprovarsi la mens rea, ovvero l’intento di commettere uno specifico atto, accompagnato dalla consapevolezza che si tratti di un attacco, di cui la condotta è parte, diretto contro la popolazione.
Infine, l’ipotesi di crimine di genocidio andrebbe a configurarsi qualora risultasse comprovato che condotte quali l’uccisione, la produzione di danni fisici o mentali, nonché l’inflizione di condizioni di vita che inducano alla devastazione fisica, siano attuate con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale (art.6).
Il percorso della giustizia internazionale richiede, notoriamente, tempi d’attesa molto dilatati. Tuttavia, mentre l’emergenza continua, i primi canali giurisdizionali sono già stati attivati.
Sul piano del contenzioso penale, dopo il deferimento della situazione nella Striscia di Gaza alla Corte penale internazionale, avanzato da parte di Bangladesh, Bolivia, Comore, Gibuti, Sudafrica e, successivamente, Cile e Messico, il Procuratore ha esteso le proprie indagini sulla situazione in Palestina, cominciate già nel marzo 2021, alle ostilità e le violenze che hanno avuto luogo a partire dal 7 ottobre 2023.
Sul piano del contenzioso interstatale, il ricorso presentato dal Sud Africa, dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, circa le potenziali violazioni da parte di Israele delle disposizioni della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, ha già portato all’adozione di un’ordinanza cautelare, lo scorso 26 gennaio.
Le misure indicate dalla Corte, riguardanti l’obbligo, a carico di Israele, di adottare misure immediate ed effettive atte a prevenire l’incitamento e la commissione di atti di genocidio, nonché a consentire la fornitura di servizi di base urgenti e di assistenza umanitaria per la sopravvivenza della popolazione palestinese, si basano, a loro volta, su importanti considerazioni inerenti all’accesso al cibo.
Nel motivare la propria decisione, la Corte cita, infatti, diverse fonti sulla situazione alimentare a Gaza fornite, tra le altre, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (par.48), dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari e degli aiuti di emergenza (par. 47), dal Commissario generale delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (par. 49), secondo cui: “They lack everything, from food to hygiene to privacy. People live in inhumane conditions, where diseases are spreading, including among children. They live through the unlivable, with the clock ticking fast towards famine.”