Il ruolo del cibo nei conflitti civili

di Simone Papale e Emanuele Castelli
In un recente post pubblicato sul sito dell’International Food Policy Research Institute (IFPRI), Steven Were Omamo ha provato a fare il punto sulla relazione tra violenza politica e insicurezza alimentare, identificando sei principali strade attraverso cui i conflitti possono destabilizzare i sistemi alimentari. Secondo il Direttore dell’Unità Strategie di sviluppo e governance dell'IFPRI, i conflitti armati: 1) producono un impatto devastante sulla sicurezza alimentare, costringendo agricoltori, allevatori e commercianti a fuggire verso i centri urbani in cerca di sicurezza, rifugio e servizi (a scapito della produzione agricola); 2) minano la fiducia nelle transazioni commerciali e nei rapporti tra venditori e acquirenti, interrompendo le catene di approvvigionamento e il normale andamento dei mercati; 3) favoriscono l’emergere del mercato nero del cibo, in cui spesso i prezzi dei prodotti alimentari salgono alle stelle; 4) alterano i processi decisionali nel settore alimentare, dando potere a funzionari della sicurezza, spesso militari, che controllano l'accesso al cibo e le risorse; 5) danneggiano i processi di trasformazione delle risorse alimentari, oltre che i siti di stoccaggio, i trasporti e le infrastrutture; 6) compromettono infine il sistema degli aiuti umanitari, con decisioni che, durante i conflitti, sono spesso influenzate da fattori politici o da difficoltà logistiche. I conflitti innescano, insomma, una serie di dinamiche che destabilizzano la sicurezza alimentare, portando dunque a carenze di cibo, aumento dei prezzi, distruzione delle infrastrutture e compromissione degli aiuti umanitari. È per tutte queste ragioni che, secondo Omamo, la futura agenda di ricerca sulla relazione tra cibo e guerra dovrà necessariamente identificare i fattori che maggiormente contribuiscono a rendere i sistemi alimentari più resilienti ai conflitti e considerare quelli che definisce le “sequenze di retroazione” (feedback loops), cioè gli effetti a cascata dei conflitti in ambito politico, sociale ed economico; da questo punto di vista, sottolinea Omamo, sarebbe necessario capire come la tragedia dei conflitti possa spingere verso l’innovazione – aggiungeremmo sia in campo tecnologico, sia in quello più politico e normativo – aiutandoci a progettare sistemi alimentari più robusti e resilienti, oltre a strutture di governance (cioé entità decisionali, che di fatto producono politiche, norme e regolamenti) che garantiscano una gestione etica ed efficace dei sistemi alimentari nei contesti di conflitto.
Nel loro complesso, le dinamiche e le sfide sopra delineate costituiscono importanti elementi di riflessione per un campo di studi, quello che analizza la relazione tra violenza politica e insicurezza alimentare, che sta guadagnando sempre più attenzione nella letteratura politologica delle relazioni internazionali. Da un lato, come testimoniano in modo evidente le guerre in Ucraina e in Medio Oriente, è fuor di dubbio che i conflitti generino fame, producendo un impatto negativo sulla forza lavoro, sui campi coltivati e sui sistemi alimentari, anche su larga scala; dall’altro lato, la stessa insicurezza alimentare può contribuire ai conflitti (sebbene il legame causale, in questo caso, sia meno chiaro) generando un circolo vizioso che potrebbe produrre conseguenze negative nel lungo periodo, tanto nei paesi attualmente in guerra quanto, in modo più indiretto ma non meno rilevante, a livello globale.
Come parte di uno dei gruppi di ricerca del progetto di Eccellenza “Food For Future”, abbiamo recentemente introdotto nel dibattito un ulteriore elemento che complica un quadro forse già abbastanza complesso: nelle guerre moderne, non solo la (non) disponibilità ma anche il controllo delle risorse alimentari può giocare un ruolo cruciale, incidendo sugli equilibri di potere e aggravando le crisi umanitarie. In un recente articolo pubblicato sul tema, abbiamo sostenuto che gruppi terroristici come Boko Haram e Al-Shabaab in Africa hanno addirittura trasformato il cibo in un’arma di coercizione, sopravvivenza e legittimazione. Attraverso un’analisi basata su rapporti di agenzie governative e delle Nazioni Unite, articoli dei media, documenti e report di organizzazioni non governative e per i diritti umani (come per esempio il Council on Foreign Relations o Human Rights Watch) la nostra ricerca ha dimostrato come queste milizie giungano addirittura a manipolare la sicurezza alimentare per rafforzare il proprio controllo sul territorio e minare l’autorità statale.
Il cibo come arma di controllo e potere
Il crescente numero di studi che esplorano il ruolo del cibo come causa o conseguenza delle dinamiche di violenza ha, per ora, trascurato il modo in cui gli attori coinvolti nei conflitti sfruttano il cibo come arma di controllo e potere. Boko Haram e Al-Shabaab rappresentano due casi rilevanti per analizzare queste dinamiche. A partire dalla fine degli anni 2000, queste organizzazioni jihadiste si sono consolidate tra i gruppi terroristici più violenti al mondo, espandendo il proprio controllo rispettivamente nel nord-est della Nigeria (Africa occidentale) e nelle regioni meridionali della Somalia (Africa orientale). Questi contesti, caratterizzati da livelli estremamente bassi di sicurezza alimentare, hanno offerto alle milizie terroristiche un’opportunità strategica per rafforzare la presenza sul territorio.
Boko Haram e Al-Shabaab sono ricorsi frequentemente al cibo come strumento per imporre il proprio potere nei territori contesi e tagliare fuori lo stato dalle aree operative. Attraverso la distruzione dei raccolti, l’avvelenamento delle risorse idriche e l’impedimento dell’accesso agli aiuti umanitari, i due gruppi hanno cercato di minare la capacità dei governi di garantire il benessere della popolazione, costringendola ad assoggettarsi alla loro autorità. Nell’ultimo decennio, i militanti jihadisti hanno spesso regolato il mercato alimentare nelle rispettive zone di influenza, manipolando la distribuzione delle risorse per mantenere le comunità vulnerabili in uno stato di dipendenza e sottomissione.
In alcuni casi, i gruppi terroristici hanno imposto ingenti tasse sui raccolti e sui beni alimentari, costringendo agricoltori e commercianti a cedere parte della loro produzione sotto minaccia di violenze. Questo sistema di espropriazione forzata non solo assicura un costante approvvigionamento di risorse, ma rafforza anche il controllo economico sulle comunità locali.
La manipolazione del cibo per il consenso popolare
Oltre ad usare il cibo per affamare e sottomettere intere comunità, Boko Haram e Al-Shabaab hanno adottato anche una strategia opposta: la distribuzione mirata delle fonti di sostentamento. Nei territori controllati, i due gruppi hanno fornito generi alimentari alle comunità locali al fine di ottenere supporto e reclutare nuovi membri tra le fasce più vulnerabili della popolazione.
Strategie di questo tipo sono evidenti nel caso di Al-Shabaab, che ha cercato di sfruttare bassi livelli di sicurezza alimentare dovuti a carestie e siccità nella Somalia meridionale per guadagnarsi il favore delle comunità agricole e pastorali. Boko Haram ha adottato misure simili nel nord-est della Nigeria, sfruttando la debolezza delle istituzioni locali per rafforzare la propria posizione.
Conseguenze e limiti delle strategie terroristiche sul cibo
L’uso del cibo come arma, tuttavia, non è privo di ripercussioni per i gruppi terroristici. Sebbene la manipolazione delle risorse alimentari abbia inizialmente contribuito a rafforzare il controllo dei jihadisti nei rispettivi territori, nel lungo periodo ha innescato dinamiche negative, minandone le capacità operative. Misure incentrate sulla distruzione dei raccolti e il blocco degli aiuti umanitari hanno aggravato ulteriormente le crisi alimentari a livello locale, riducendo le risorse disponibili per le stesse milizie. Nel caso di Boko Haram, la crescente scarsità di cibo ha alimentato le defezioni tra i combattenti, spingendo il gruppo a trasferire parte delle proprie attività nel bacino del Lago Chad. Al-Shabaab, d’altro canto, ha dovuto fronteggiare un malcontento tra le comunità agricole che, esasperate dalle continue vessazioni e privazioni, hanno cominciato a formare gruppi di resistenza armata.
Le strategie alimentari terroristiche sembrano quindi avere un effetto boomerang: se da un lato permettono di consolidare il controllo nel breve periodo, dall’altro minano la sostenibilità delle loro operazioni, riducendo il sostegno popolare e complicando la gestione logistica delle insurrezioni.
Implicazioni per la sicurezza e le politiche di contenimento
La più recente ricerca politologica nel campo delle relazioni internazionali evidenzia come il cibo sia una dimensione chiave nei conflitti contemporanei; l'analisi della relazione tra risorse alimentari e violenza politica offre dunque spunti cruciali per comprendere le dinamiche di potere e le misure adottate dai vari attori. Il cibo non rappresenta solo una variabile di contesto nei conflitti civili, ma un elemento centrale delle strategie utilizzate dagli attori in campo. Per contrastare efficacemente gruppi jihadisti come Al-Shabaab e Boko Haram è fondamentale implementare un approccio che integri sicurezza e sviluppo, affrontando il problema dell'insicurezza alimentare alla radice.
A tal fine, le politiche di sicurezza implementate da stati e organizzazioni internazionali beneficerebbero di una maggiore sensibilità nei confronti dell’accesso al cibo e dei livelli di resilienza nelle aree vulnerabili. Affrontare le cause profonde dell'insicurezza alimentare, come la povertà e la debolezza delle istituzioni locali, potrebbe ridurre significativamente la capacità dei gruppi terroristici di sfruttare le fonti di sostentamento come strumento di potere e influenza.