La Direttiva Greenwashing conferma la centralità dei marchi nell’informazione dei consumatori di prodotti agroalimentari anche in relazione alla sostenibilità e alla transizione ecologica
Di Cesare Galli e Angelo Rainone
Il legislatore europeo è recentemente intervenuto sulla disciplina delle pratiche commerciali ingannevoli e dei marchi di certificazione con la Direttiva (UE) 2024/825, approvata in data 28 febbraio 2024 e che andrà recepita dagli Stati Membri entro il 2026, diretta ad indirizzare il mercato verso scelte più sostenibili da un punto di vista ambientale e che tutelino i consumatori dal fenomeno del così detto “greenwashing”, espressione che ricomprende tutte le strategie di comunicazione o di marketing attuate da imprese, istituzioni o altri enti volte ad occultare l’effettivo impatto ambientale negativo di determinate attività economiche, presentandole ingannevolmente come eco-sostenibili.
Questo problema è particolarmente rilevante nel settore agroalimentare: numerosi studi, tra cui il “Nielsen Sustainable Shoppers Report” del 2018 e l’”Osservatorio Immagino” di GS1 del 2023, hanno infatti dimostrato che in questo campo i “green claims” sono in grado di orientare il comportamento economico dei consumatori in modo particolarmente incisivo, portandoli a preferire prodotti food asseritamente “ecosostenibili” rispetto ad altri prodotti che non vantano tale caratteristica. Si tratta, dunque, di un settore in cui la trasparenza nella comunicazione d’impresa è di vitale importanza per il corretto funzionamento del mercato.A tal fine il legislatore comunitario modifica le due Direttive che tutelano gli interessi dei consumatori nel diritto dell’UE, vale a dire la Direttiva sulle pratiche commerciali sleali (Direttiva 2005/29/CE) e la Direttiva sui diritti dei consumatori (Direttiva 2011/83/UE).
Nella prima, in particolare, vengono incluse nel novero dei possibili oggetti delle informazioni ingannevoli che vengono sanzionate di cui al suo art. 6 (cui corrisponde, nella nostra legislazione interna, l’art. 21 del Codice del Consumo) anche le asserzioni ambientali che contengano informazioni “non veritiere” o “ingannevoli” riguardo ad alcune caratteristiche falsamente attribuite ai prodotti oggetto di promozione, che si ritiene abbiano agli occhi del consumatore una rilevanza dal punto di vista ambientale, come la durabilità, la riparabilità o la riciclabilità (comma 1°, relativo alle pratiche commerciali ingannevoli), e le asserzioni ambientali riguardanti impegni futuri assunti da un operatore economico, sanzionando promesse non corroborate da adeguate e concrete garanzie (comma 2°, relativo sia alle pratiche commerciali confusorie, sia a quelle che comportino il mancato rispetto da parte di un operatore economico di “impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare”, figura quest’ultima alla quale è omogenea quella ora introdotta).
A queste fattispecie, la cui ingannevolezza va valutata caso per caso, si aggiunge poi un aggiornamento della black list di cui all’allegato I della Direttiva – tradottosi all’interno del nostro ordinamento nell’art. 23 del Codice del Consumo –, che, nel perseguimento di “una maggiore certezza del diritto” (così il Considerando 17 della Direttiva 2005/29/CE), contiene un elenco di condotte che costituiscono ex se pratiche commerciali ingannevoli.
A ben vedere, nel primo caso la nuova disciplina non ha una portata realmente innovativa, dato che entrambe le fattispecie ora espressamente inserite nell’art. 6 della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali erano già riconducibili alle definizioni di portata più generale contenute nel testo previgente della medesima disposizione: ed infatti sulla base della norma nazionale corrispondente, e cioè appunto dell’art. 21 del Codice del Consumo, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha più volte avuto modo di sanzionare messaggi promozionali “verdi” ingannevoli. Il provvedimento dell'AGCM più noto su questo argomento è sicuramente quello del 20 dicembre 2019 n. 28060 (https://www.agcm.it/dotcmsCustom/tc/2025/1/getDominoAttach?urlStr=192.168.14.10:8080/C12560D000291394/0/EA2DDE5C8438F34EC12584F5005BD4C5/$File/p28060.pdf) relativo al caso “Eni”, con il quale l'Autorità ha irrogato una sanzione di 5 milioni di euro (vale a dire il massimo edittale) alla società Eni S.p.A. per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli volti alla promozione del carburante “Eni Diesel+”, che veniva definito nelle comunicazioni pubblicitarie come un “Green Diesel”, ritenendo che i messaggi promozionali diffusi da Eni, riguardando un tipo di carburante che, per sua natura, è un prodotto altamente inquinante (e che, evidentemente, non può essere considerato “green”), di cui omettevano di riportare le caratteristiche del prodotto in modo puntuale e non ambiguo, presentandole in modo comprensibile e scientificamente verificabile, fossero idonei a trarre in inganno i consumatori, inducendoli ad attribuire al prodotto delle qualità – nello specifico, un impatto ambientale positivo – che il prodotto non aveva, dato che esso, seppur in modo inferiore rispetto ad altri carburanti, ha un chiaro impatto ambientale negativo.
L’opportunità dell’inserimento delle nuove definizioni risulta peraltro dai dati contenuti in uno studio del 2020 della Commissione Europea (Environmental claims in the EU: Inventory and reliability assessment Final report, 2020, disponibile alla pagina web: https://ec.europa.eu/environment/eussd/smgp/pdf/2020_Greenclaims_inventory.zip.), espressamente richiamato nella proposta della Direttiva ora adottata, da cui emerge che il 53,3% delle dichiarazioni ambientali effettuate dalle imprese a livello comunitario forniva informazioni vaghe, fuorvianti o infondate sulle caratteristiche ambientali dei prodotti offerti in vendita. Da qui l’esigenza di menzionare espressamente queste condotte tra quelle sanzionate, così da garantire una maggior certezza e armonizzazione nell’interpretazione del divieto nei diversi Paesi dell’Unione, esplicitando anche l’importanza che la tutela dell’ambiente riveste agli occhi dell’Unione e valorizzando così anche la funzione “pedagogica” del diritto.
Più significativo è l’impatto dell’inserimento di una lista di pratiche commerciali riconducibili al fenomeno dell’ambientalismo di facciata all’interno della black list di cui all’allegato I della Direttiva 2005/29/CE, che rende superflua ogni ulteriore valutazione al fine di riconoscerne l’illiceità, tanto che gli stessi “Orientamenti sull'interpretazione e sull'applicazione della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno” (disponibili alla pagina web https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52021XC1229(05)) suggeriscono che, quando l’interprete si trovi ad analizzare la condotta di un professionista per valutarne la possibile ingannevolezza, debba sempre verificare come prima cosa che essa non sia inquadrabile nella black list.
Tra le nuove condotte inserite in black list la più importante è la prima, che considera per se illecito “Esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche”, dovendosi intendere per “marchio di sostenibilità” – secondo la definizione parimenti introdotta dalla nuova Direttiva ora approvata – “qualsiasi marchio di fiducia, marchio di qualità o equivalente, pubblico o privato, avente carattere volontario, che mira a distinguere e promuovere un prodotto, un processo o un’impresa con riferimento alle sue caratteristiche ambientali o sociali oppure a entrambe, esclusi i marchi obbligatori richiesti a norma del diritto dell’Unione o nazionale”.
A monte di questa definizione vi è infatti il riconoscimento che i segni distintivi, su tutti il marchio, costituiscono oggi un vero e proprio strumento di comunicazione, in quanto veicolano un messaggio il cui mittente è il titolare ed i cui destinatari sono tutti coloro che si interfacciano con i suoi segni distintivi. In questo modo, in particolare per le innovazioni (ma anche, e più in generale, per le caratteristiche peculiari di un prodotto o servizio, e oggi in primis proprio la sua sostenibilità) il marchio indica anzitutto l’origine commerciale del prodotto (o del servizio) che le realizza, permettendo al pubblico di apprezzare e associare un determinato quid particolarmente innovativo (o, specificamente, sostenibile) ad un’impresa piuttosto che ad un’altra, facendo sì che questo quid diventi un “valore aggiunto” sul mercato, orientando le scelte degli acquirenti che desiderino questo valore e quindi, ancora una volta, incoraggiando le imprese a competere tra loro nel fornire questo valore aggiunto, dunque anche nel fornire sostenibilità ambientale. La comunicazione che si svolge così tra consumatori ed impresa per mezzo di un marchio è, a ben vedere, a favore dei primi e per questo anche della seconda, che è spronata a investire sulle connotazioni positive dei suoi prodotti, in grado di rispondere ai nuovi bisogni, compreso quello della sostenibilità, perché attraverso la comunicazione di tali connotazioni è in grado di conseguire un vantaggio concorrenziale, che si riflette sulla competitività dell’impresa stessa. Insomma, ciò che la proprietà intellettuale permette all’impresa che opera in modo sostenibile è di ottenere la visibilità, e quindi il ritorno economico, dei propri investimenti in termini di sostenibilità, così incentivandola a produrre in modo più attento all’ambiente.
L’equilibrio tra esclusiva e tutela della concorrenza e dei consumatori è quindi assicurato dalle norme che sanzionano le comunicazioni d’impresa suscettibili di ingannare il pubblico – addirittura giungendo a comminare per questo la decadenza del marchio che sia stato caricato di valenze e significati decettivi –, norme tra le quali s’inquadra quindi anche quella di cui la nuova Direttiva impone ora l’adozione: la previsione secondo la quale che il messaggio ecologico di cui questi marchi sono portatori sia “basato su un sistema di certificazione” o in alternativa che il marchio sia “stabilito da autorità pubbliche”, impone infatti l’adozione e l’effettiva applicazione di un meccanismo di controlli e di sanzioni, pubblicistiche o privatistiche, in assenza del quale il marchio va considerato decettivo.
A venire in considerazione in relazione ad essa saranno dunque i brand ecologici di soggetti qualificati, pubblici o privati, che svolgano controlli sulla produzione dei soggetti che vengano da essi autorizzati ad usarli attraverso tipiche operazioni di co-branding, ossia attraverso l’utilizzo di questi brand in abbinamento al marchio aziendale: l’impresa che associ il proprio marchio a marchi collettivi o di certificazione (ma anche di marchi individuali ad uso plurimo, che egualmente sono soggetti all’obbligo di verità e quindi, se comunicano un messaggio che faccia riferimento a “caratteristiche ambientali o sociali”, dovranno prevedere un sistema di certificazione di esse) permette infatti al consumatore di riconoscere immediatamente una determinata qualità di tutti o di alcuni dei suoi prodotti o servizi, garantita appunto da tali marchi, senza bisogno di modificare il messaggio generale collegato al marchio aziendale, ma consentendo comunque di beneficiare del valore aggiunto derivante da quella determinata qualità, e in primis oggi da una produzione sostenibile o socialmente virtuosa sotto i profili oggetto della certificazione, comunicandoli al mercato appunto tramite l’apposizione, a fianco del marchio d’impresa, del marchio collettivo o di certificazione (questi ultimi due di particolare importanza proprio nel settore agro-alimentare) o del marchio individuale ad uso plurimo che quella qualità garantiscono. Tra questi possono figurare del resto gli stessi marchi delle Associazioni ambientaliste, conferendo per il tramite di essi la propria “approvazione” ai prodotti e alle imprese che esse giudichino conformi a determinati standard ambientali o sociali, sempre però sulla base di riscontri obiettivi, valendo anche in questo caso, l’onere dell’attuazione di un sistema di certificazione.
Infine, quale corollario di quanto precede, risulta altresì evidente l’importanza della lotta alla contraffazione: il contraffattore, contrariamente al proprietario del marchio originale, non ha infatti nessun interesse a garantire la qualità piuttosto che l’ecosostenibilità del suo prodotto, dato che qualsiasi biasimo si riverserà neppure parzialmente su di lui, bensì interamente in capo al titolare del marchio. Anzi, tale noncuranza gli permette, sovente, di diminuire i costi di produzione e incrementare i profitti, a spese del consumatore e dell’ambiente.
Anche attraverso queste nuove norme, dunque, il mercato e la proprietà intellettuale potranno essere messi al servizio della sostenibilità, portando benefici concreti in pari tempo al consumatore e alle imprese.