La possibile introduzione di disposizioni normative sulla pratica della doggy bag in Italia: un primo passo verso una nuova cultura antispreco?
di Chiara Cerbone
Nelle scorse settimane sono state presentate in Parlamento due proposte di legge finalizzate a sensibilizzare e regolamentare lo spreco alimentare nella ristorazione. Nel dettaglio, l’11 gennaio, è stata presentata una proposta di legge da esponenti della maggioranza il cui obiettivo è l’introduzione dell’obbligo di consentire l’asporto di cibi e bevande non consumati dal cliente negli esercizi di ristorazione. Pochi giorni prima era stata depositata una una proposta di legge da esponensti dell’opposizione, volta a promuovere – tra le altre misure – l’utilizzo della c.d. doggy bag.
Quando si parla di Doggy Bag si fa riferimento ad una pratica presente negli Usa fin dagli anni Quaranta quando, su iniziativa della San Francisco Restaurant Association, i ristoratori della città californiana cominciarono a fornire ai propri clienti, su loro richiesta, dei sacchetti c.d. “Pet Pakits” (letteralmente, “pacchetti per animali domestici”) che permettevano di portar via «il cibo che gli era stato servito ma che non avevano avuto l'appetito di finire». (A. Davidson, T. Jaine, 2014).
Partendo da questo contesto, le riflessioni che seguono si propongono di analizzare le proposte di legge che mirano ad introdurre la regolamentazione di tale pratica nell’ordinamento italiano, inquadrandole, innanzitutto, nel più ampio e composito quadro di iniziative già adottate su scala globale, sovranazionale e nazionale contro lo spreco alimentare (food waste) all’interno del quale la pratica della doggy bag si inserisce.
Per una delimitazione del fenomeno del food waste
Il food waste è tra i temi sui quali, negli ultimi decenni, si è concentrata la riflessione non soltanto della dottrina giuridica, ma anche di economisti e sociologi, al fine di indagare le cause di tale fenomeno e proporre soluzioni che ne limitino gli effetti negativi. Tali studi sono stati caratterizzati dall’utilizzo di svariate metodologie di analisi che hanno prodotto molteplici definizioni di food waste (Giannetti V., Boccacci Mariani M., 2018).
Per tale ragione, a partire dai suoi primi Report sul tema, la Food and Agriculture Organization of the United Nations – da ora FAO – ha condotto un’opera di armonizzazione definitoria che ha permesso di qualificare il fenomeno del food waste e, al contempo, di differenziarlo da quello del food loss.
In particolare, con il termine food loss si indica la perdita di cibo che si registra nelle prime due fasi della filiera alimentare, vale a dire quelle della produzione e della distribuzione di cibo e riguarda, principalmente ma non solo, quegli alimenti che, seppur qualitativamente perfettivengono scartati ancor prima di accedere al mercato non rispettando standard estetici (Parfitt et al., in Global Food Losses and Food Waste, 2011).
Con il termine food waste ci si riferisce, invece, allo spreco di cibo che si realizza nelle ultime fasi della filiera alimentare – vendita e consumo di cibo – e che interessa quegli alimenti che, ancorché pronti, non vengono consumati (Parfitt et al., in Global Food Losses and Food Waste, 2011) per diverse ragioni tra cui il mancato acquisto prima della scadenza (talvolta causato della grande disponibilità di beni al supermercato), il deperimento di tali beni presso le mura domestiche ed infine, il mancato consumo di quanto ordinato a ristorante.
Secondo l’ultimo Report dell’United Nations Environment Programme (UNEP), il food waste riguarda circa 931 milioni di tonnellate di cibo che vengono sprecati per il 61 % nella fase del consumo domestico, per il 26% durante la fase del consumo presso i food service ed infine per il 13 % nelle fasi che vedono quale protagonista l’industria alimentare (Mbow et al., 2019; UNEP, 2021).
Tali dati destano particolare preoccupazione soprattutto se letti congiuntamente alla percentuale crescente di persone che soffrono la fame nel mondo. Secondo l’ultimo Rapporto FAO, The State of Food Security and Nutrition in the World, sono infatti circa 735 milioni le persone che versano in una situazione di insicurezza alimentare (food insecurity) e tale situazione costituisce ciò che è stato opportunamente definito come paradosso della scarsità dell’abbondanza: l’immensa quantità di cibo sprecato si contrappone alla significativa assenza di generi alimentari di prima necessità per una fetta non irrilevante della popolazione mondiale (Campiglio e Rovati, 2009).
Alla ricerca di soluzioni al food waste: il ruolo delle Organizzazioni internazionali e sovranazionali
Al fine di fronteggiare quella che potrebbe definirsi, dunque, come crisi di sistema, da oltre un trentennio diverse Organizzazioni internazionali e sovranazionali hanno avviato non solo un’attività di quantificazione e monitoraggio degli sprechi alimentari, ma anche una serie di azioni volte a contrastare quest’ultimi.
In particolare, due dei diciassette UN Goals dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite sono dedicati alla sicurezza alimentare (food security) e si pongono l’obiettivo zero hunger (Goal 2) e la promozione di modelli sostenibili di produzione e di consumo, anche degli alimenti (Goal 12).
Guardando invece all’azione dell’Unione Europea (dove, secondo le ultime stime dell’Eurostat, la quantità di food waste è pari a circa 91 kg pro capite) gli organi unionali hanno agito in due direzioni: da un lato è stata adottata una direttiva quadro sui rifiuti, la Dir. (UE) 2018/851 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 2018, che, modificando la precedente Direttiva 2008/98/CE, ha configurato per la prima volta a livello euro-unitario, la definizione di “rifiuto alimentare”.
Dall’altro lato, a partire dal 28 giugno 2016 e dalle Conclusioni adottate dal Consiglio in materia di food loss e food waste, sono state intraprese una serie di iniziative – tra cui, la più rilevante è la strategia Farm to Fork – volte a ridurre gli sprechi alimentari e finalizzate al raggiungimento di quattro obiettivi: migliorare il monitoraggio degli sprechi; sensibilizzare la popolazione ad un utilizzo più consapevole delle risorse; migliorare la comprensione e l'uso delle indicazioni "da consumarsi preferibilmente entro il" e "da consumarsi entro il" ed infine facilitare la donazione dei prodotti invenduti a organismi di beneficenza.
La lotta allo spreco alimentare nei contesti nazionali: i casi francese ed italiano
Nella direzione indicata dall’Unione Europea muovono le iniziative, legislative e non, adottate dai singoli Stati membri, tra cui non possono non analizzarsi i casi francese ed italiano.
Il primo paese ad approvare una normativa organica contro lo spreco alimentare è stato la Francia che nel 2016 ha adottato la LOI n° 2016-138 du 11 février 2016 relative à la lutte contre le gaspillage alimentaire, c.d. Loi Garot, caratterizzata da un approccio opportunamente definito command and control (Lattanzi, 2019) basato sulla previsione, in caso di mancato rispetto delle disposizioni nella stessa contenute, di sanzioni pecuniarie per i commerces de détail ed i distributeurs du secteur alimentaire. In particolare, grazie ad alcune modifiche operate da tale legge al Code de l’environment, i supermercati con superficie superiore ai 400 mq si sono visti imporre l’obbligo di stipulare degli accordi di donazione degli alimenti rimasti invenduti con le organizzazioni no-profit che si occupano di distribuzione gratuita di cibo. Oltre a ciò, a partire dall’ordinanza del 21 ottobre del 2019 del Ministero dell’Agricoltura francese, tale obbligo è stato esteso anche agli operatori della grande distribuzione con un fatturato oltre i 500 milioni di euro ed infine ai ristoranti con più di 3000 pasti serviti al giorno (Camoni, 2023).
Il riferimento alla legislazione francese è particolarmente pertinente in quanto, prima ancora dell’adozione di una normativa antispreco, nel 2011, con il Décret n° 2011-828 du 11 juillet 2011 portant diverses dispositions relatives à la prévention et à la gestion des déchets è stato introdotta una raccomandazione all’utilizzo della doggy bag poi sostituita da un vero e proprio obbligo entrato in vigore il 1° luglio 2021 (M. A. Achabou, S. Dekhili, D. Tagbata, 2018).
L’obbligatorietà della proposta al cliente dell’utilizzo di un contenitore da asporto per il cibo avanzatpo ha rappresentato un ulteriore tassello verso la limitazione degli sprechi durante la fase del consumo nei ristoranti che, secondo uno studio, seppur risalente, dell’ Agence de l’Environnement et de la Maitrise de l’Energie, rappresentano circa il 16% del totale di sprechi alimentari in Francia. Una misura che mira a colpire gli ostacoli che si frappongono alla richiesta di contenitori da parte dei clienti e che sarebbero riconducibili per un verso alla dimensione “materiale” della pratica della doggy bag (tra cui gli ipotetici rischi per la salute, la percezione di bassa efficacia in termini di ambientali della pratica, o ancora, il costo degli imballaggi) per un altro alla sua dimensione “sociale” alla quale è senz’altro riconducibile la vergogna che proverebbero i clienti nel chiedere un contenitore per portar via gli avanzi (M. A. Achabou, S. Dekhili, D. Tagbata, 2018).
Ostacoli che sono riferibili non soltanto al contesto francese ma che possono ricondursi a molti dei contesti nazionali europei, tra cui quello italiano.
In Italia, l’azione contro lo spreco alimentare viene intrapresa già nel 2003 quando, con la Legge n. 155 del 16 luglio 2003 “Disciplina della Distribuzione dei prodotti alimentari a fini di solidarietà sociale”, c.d. Legge del Buon Samaritano, il legislatore mira ad incoraggiare la donazione di cibo alle persone indigenti.
Un’azione che viene rafforzata dall’adozione, anche grazie al fermento culturale generato dalla celebrazione dell’EXPO 2015 “Nutrire il pianeta, energia per la vita” nella città di Milano, della prima normativa italiana antispreco, la Legge 19 agosto 2016, n. 166 “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”, c.d. Legge Gadda.
Questa normativa prevede una regolamentazione della donazione e distribuzione – a titolo gratuito e per fini solidaristici – di diversi beni, tra cui alimenti. L’obiettivo perseguito dalla legge italiana è dunque l’affermazione di un modello volontaristico che si affermi attraverso la semplificazione amministrativo-burocratica, la previsione di sgravi di natura fiscale per i soggetti che donano ed infine la definizione dei beni che possono esser donati e le responsabilità che ricadono sui soggetti che donano e su quelli che ricevono. La valorizzazione della libera azione dei singoli soggetti pone il modello italiano in un’ottima diametralmente opposta rispetto al già citato modello francese che, all’epoca dell’approvazione della Legge Gadda, era l’unico esistente in Europa.Eppure, né la legge n. 155/2003 né la legge n. 66/2016 contengono alcun riferimento al recupero del cibo non consumato nei ristoranti.
Si potrebbe allora ipotizzare che i disegni di legge di recente presentati in Parlamento mostrino la volontà di comporre un quadro sempre più attento allo spreco e alla sostenibilità alimentare in tutti i suoi passaggi.
Tuttavia, le righe che seguono e che sono specificamente dedicate all’analisi delle proposte richiamate, mostrano ancora una certa approssimazione incrementale al tema non priva di rilievi problematici.
Le proposte di legge A.C. 1643 e A.C. 1638
La proposta di legge di «Introduzione dell’obbligo di consentire l’asporto di cibi e bevande non consumati dal cliente negli esercizi di ristorazione» (Atto Camera n. 1643), consta di soli quattro articoli.
L’art. 1, rubricato “Obblighi degli esercizi di ristorazione” prevede per i ristoratori l’obbligo di consentire l’asporto di cibi e bevande “non consumati sul posto” fornendo ai clienti dei contenitori che, laddove riutilizzabili, sono da restituire al ristoratore. A disposizione viene affiancato l’obbligo del ristoratore di informare adeguatamente i clienti sulle modalità di asporto con «cartelli ben visibili collocati nei locali dell’esercizio di ristorazione». Laddove il ristoratore non adempia a tali obblighi, ex art. 2, è prevista una sanzione amministrativa da 25 a 125 euro.
Quanto al cliente, l’art. 3 gli riconosce la facoltà utilizzare un proprio contenitore – della cui igiene è personalmente responsabile – salvo il rispetto delle vigenti norme igienico-sanitarie alla cui verifica è delegato il ristoratore. Infine, l’art. 4 statuisce, quanto all’entrata in vigore della legge, una vacatio di 6 mesi.
Passando all’analisi della proposta di legge intitolata «Disposizioni per la riduzione degli sprechi nel settore della ristorazione attraverso il reimpiego delle eccedenze alimentari nonché incentivi fiscali per la riconversione degli scarti agroalimentari» (Atto Camera n. 1638), quest’ultima prevede, al fine di «promuovere la sostenibilità ambientale dei processi produttivi e dei consumi e di ridurre gli sprechi alimentari nella filiera della ristorazione», […] l’«utilizzo di appositi contenitori per l’asporto del cibo – che nella corredata relazione introduttiva vengono definiti come “food bag” e non come “doggy bag” – e delle bevande non consumati da parte dei consumatori» (art. 1, c. 1, lettera b), l’«istituzione di un logo utilizzabile dagli esercizi commerciali che aderiscono a un disciplinare per sviluppare l’economia circolare nella filiera della ristorazione e per ridurre lo spreco di alimenti» (art. 1, c. 1, lettera d) ed infine la «realizzazione di apposite campagne di informazione per promuovere la rete della ristorazione impegnata nella riduzione degli sprechi e per incentivare il consumatore a porre in atto comportamenti e azioni adeguati ai fini della diminuzione delle eccedenze agroalimentari».
Il perseguimento di tali finalità si affianca ai più generali obiettivi di sostenibilità che riguardano la filiera alimentare e che prevedono sia incentivi statali per la riconversione degli scarti alimentari, sia la valorizzazione delle produzioni agricole che rischiano di rimanere invendute.
Dall’analisi dell’art. 2 emergono una serie di misure operative, tra cui la “consegna” ai clienti, su loro richiesta, di contenitori che garantiscano la «sicurezza alimentare e recanti, in forma scritta e leggibile, le indicazioni per la corretta conservazione degli alimenti» che saranno forniti, senza alcun costo per il ristoratore, dal servizio di gestione dei rifiuti del comune ove quest’ultimo ha sede. Pur nell’assenza di un vero e proprio obbligo di fornire la “food bag”, la proposta prevede poi, al co. 5 dell’art. 2, una sanzione da 500 a 1000 euro per il ristoratore che non fornisca adeguate informazioni in merito alla possibilità di asportare gli alimenti non consumati.
Infine, oltre alle previsioni sulla entrata in vigore della legge, appare rilevante la disposizione di cui all’art. 5 che istituisce il logo “ristorazione sostenibile” che può essere richiesto dai ristoranti che «si impegnano a rispettare il disciplinare predisposto dal Tavolo permanente di coordinamento per la ristorazione e il commercio contro lo spreco alimentare», organo che viene istituito secondo le previsioni di cui all’art. 4 della proposta di legge.
Le due proposte, ancorché simili nelle finalità, si differenziano quanto alle modalità di raggiungimento degli obiettivi relativi alla limitazione dello spreco alimentare. Se nella prima proposta in ordine di tempo (A.C. 1638) l’incentivazione della pratica della food bag va letta nel più ampio ambito delle misure volte a promuovere comportamenti virtuosi dei diversi operatori della filiera alimentare, la seconda proposta (A.C. 1645) vede l’affermazione di un vero e proprio obbligo, pena una sanzione, di consentire l’asporto di quanto non consumato.
Tuttavia, la previsione di una sanzione anche nella proposta di cui all’A.C. 1638 rende le disposizioni equiparabili dal punto di vista del modello prescelto che sembrerebbe seguire l’esempio francese.
Il dibattito che potrebbe scaturire dalla valutazione dell’opportunità di adottare disposizioni obbligatorie piuttosto che continuare nel solco già tracciato dalla legge Gadda, basato sul modello volontaristico di lotta agli sprechi e che ha già dimostrato avere, nel contesto italiano, una certa efficacia (Pitto, 2023), non può comunque essere disgiunto da una più ampia riflessione sulla necessità di sensibilizzare, mediante l’azione normativa dello Stato, alla lotta contro gli sprechi alimentari.
Entrambe le proposte muovono infatti nel verso della responsabilizzazione sia dei ristoratori che dei clienti che vengono indirizzati verso comportamenti più sostenibili. Un’azione però che appare solo accennata nella proposta A.C. 1638 (che pur assumendo tra le proprie le finalità la “realizzazione di apposite campagne di informazione per promuovere la rete della ristorazione impegnata nella riduzione degli sprechi e per incentivare il consumatore a porre in atto comportamenti e azioni adeguati ai fini della diminuzione delle eccedenze agroalimentari” ne rimette poi la realizzazione al Tavolo permanente dalla stessa istituito senza alcuna altra indicazione) e che invece rimane addirittura implicitamente desumibile nella proposta di cui all’A.C. 1645.
Sarebbe stato forse opportuno prevedere già nei due testi l’adozione di campagne di sensibilizzazione capillari che, affiancate alle disposizioni normative, avrebbero potuto incidere più efficacemente su quelle “norme sociali” che ancor oggi celano, dietro la mancata richiesta della doggy bag, un senso di disagio . Imbarazzo che dovrebbe tramutarsi, invece, nella consapevolezza di star compiendo un gesto volto a contribuire alla sostenibilità dei sistemi alimentari.
Per quanto esigua possa sembrare la quantità di cibo che andrebbe “salvata” grazie alla regolamentazione della pratica della doggy bag, attraverso quest’ultima si potrebbe perseguire un obiettivo che, seppur secondario, risulta essere forse ancora più rilevante e cioè l’affermazione di comportamenti e stili di vita sostenibili.È solo tramite quest’ultimi che si può infatti sperare in futuro con una sensibile diminuzione degli sprechi (non solo) alimentari.