Nasce il “contrassegno per il made in Italy” per la valorizzazione delle eccellenze italiane
Di Cesare Galli
Arriva il “contrassegno per il made in Italy”, insieme alla promozione per il ricorso alla tecnologia blockchain per la tracciabilità delle filiere e a nuove norme di contrasto alla contraffazione, specialmente nel settore agroalimentare, e per la valorizzazione delle eccellenze italiane sul mercato globale
È entrata in vigore l’11 gennaio la legge 27 dicembre 2023, n. 206, intitolata “Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy”, un testo estremamente articolato, che, tra i molti interventi eterogenei in esso contenuti, comprende anche alcune norme suscettibili di incidere positivamente sulla protezione e sulla valorizzazione della proprietà intellettuale che sta alla base delle eccellenze produttive italiane.
Tra queste, le più innovative sono la disposizione dell’art. 41, che prevede l’istituzione di un “Contrassegno per il made in Italy”, e quella dell’art. 47, diretta alla promozione del ricorso alla tecnologia “Blockchain per la tracciabilità delle filiere”, ma non priva di importanza – se ne verranno colte le potenzialità – è anche la disposizione programmatica dell’art. 22, intitolato “Registrazione di marchi per i luoghi della cultura”. Né infine vanno trascurate le norme finali della legge, che contengono alcune disposizioni di rilevante impatto per la lotta alla contraffazione, specialmente nel settore agroalimentare.
Il contrassegno per il made in Italy e l’incentivazione del ricorso alla tecnologia blockchain a tutela delle filiere produttive
L’art. 41 della legge ha stabilito che entro 90 giorni dalla sua entrata in vigore verrà istituito “un contrassegno ufficiale di attestazione dell’origine italiana delle merci”, che avrà natura di “carta valori ai sensi dell’articolo 2 della legge 13 luglio 1966, n. 559” e verrà conseguentemente realizzato dal Poligrafico dello Stato “con tecniche di sicurezza o con impiego di carte filigranate o similari o di altri materiali di sicurezza ovvero con elementi o sistemi magnetici ed elettronici in grado, unitamente alle relative infrastrutture, di assicurare un’idonea protezione dalle contraffazioni e dalle falsificazioni”, ed il cui uso “da solo o congiuntamente con la dizione «made in Italy»” sarà riservato alle “imprese che producono beni sul territorio nazionale, ai sensi della vigente normativa dell’Unione europea” e che potranno apporlo, su base volontaria, esclusivamente sui predetti beni.
In base a questa disciplina, tale contrassegno non sarà un marchio, avendo – al pari dell’espressione “made in Italy” – valenza descrittiva, come tale non monopolizzabile: per questa ragione anche l’abbinamento a tale espressione di un segno ulteriore, evocativo dell’origine italiana, difficilmente avrebbe potuto essere validamente registrato e protetto fuori dal nostro Paese, non essendo ammesso a livello di Unione Europea il marchio di certificazione geografico, e anche fuori dall’Europa sarebbe risultato non tutelabile in gran parte dei Paesi.
Si è quindi ripreso il progetto a suo tempo predisposto dal Governo Renzi – e in particolare dal Ministro Calenda e dal Sottosegretario Scalfarotto –, ma poi non adottato, che ipotizzava di procedere con un approccio “capovolto”, ossia, anziché di istituire un marchio, di identificare un contrassegno ufficiale dello Stato italiano, attribuendovi valore descrittivo dell’origine italiana delle merci, vietandone l’uso da parte di chiunque per i prodotti che non abbiano i requisiti per poter godere dell’origine italiana (ultima trasformazione sostanziale in Italia, nei termini previsti previsto dal Codice Doganale dell’Unione Europea).
Trattandosi di un contrassegno di Stato, esso rientrerà, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale, nel generale divieto di registrazione come marchio d’impresa per “gli stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia”, nonché “per i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico” (art. 10 C.P.I., corrispondente all’art. 7 del Regolamento sul marchio dell’Unione Europea, all’art. 3 della Direttiva n. 2008/95/C.E. e, per la parte relativa agli stemmi, all’art. 6-ter della Convenzione di Unione di Parigi, richiamata anche dall’Accordo TRIPs): ciò consentirà all’Italia di opporsi anche al di fuori del nostro Paese alla registrazione come marchio e all’uso (che avrebbe natura decettiva) di questo contrassegno, consentendone l’utilizzo in funzione puramente descrittiva ai soli aventi diritto.
Il contrasto all’uso abusivo di tale contrassegno da parte di soggetti non legittimati, in Italia o all’estero, verrà inoltre facilitata dall’attribuzione ad esso della natura di “carta-valori”, la cui stampa è riservata in via esclusiva all’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. (di seguito, l’ “IPZS”), ente in grado di garantirne, attraverso particolari tecniche di stampa e codici alfanumerici unici ed univoci, la non falsificabilità, così rendendone meno agevole la contraffazione, che del resto, proprio in quanto si tratterebbe di un contrassegno di Stato, sarebbe sanzionata (almeno nel nostro Paese) in modo più severo.
L’efficacia di questo nuovo sistema potrà essere ulteriormente incrementata attraverso il più ampio ricorso alla tecnologia blockchain nella gestione delle filiere produttive, anzitutto (ma non solo) nel campo agroalimentare, che la nuova legge incoraggia prevedendo, all’art. 47, non solo un fondo con una dotazione di 4 milioni di Euro per il 2023 e di 26 milioni per il 2024, a favore delle piccole e medie imprese, ma anche l’istituzione di un “catalogo”, nel quale saranno inserite “le soluzioni tecnologiche conformi alle previsioni di cui al … decreto-legge n. 135 del 2018” e saranno censiti “i nodi infrastrutturali rispondenti ai requisiti dettati dall’European Blockchain Services Infrastructure, al fine di promuovere la costituzione di una rete basata su tecnologie distribuite, favorendo l’interoperabilità con le soluzioni tecnologiche sviluppate all’interno dell’Italian Blockchain Services Infrastructure”.
La blockchain, infatti, benché abbia trovato le sue prime e più note applicazioni nel modo della finanza e delle criptovalute, si configura come un sistema decentralizzato di “notarizzazione” di singoli dati, che possono riguardare non solo transazioni, ma anche moduli e processi e che, una volta inseriti, risultano sostanzialmente immodificabili, fornendo anche datazione e geolocalizzazione certe dell’immissione, poiché la modifica richiederebbe il consenso di tutti i partecipanti alla catena (i “nodi”, come vengono abitualmente chiamati), i quali sono potenzialmente infiniti, così rendendo più trasparenti e controllabili le filiere e riducendo quindi i rischi di abusi e di illegalità. Ed in effetti alcuni consorzi di tutela di prodotti DOP/IGP già hanno integrato la blockchain nei propri meccanismi di controllo: per citare qualche esempio, Grana Padano DOP, Aceto Balsamico di Modena IGP e Cioccolato di Modica IGP.
Una corretta contrattualizzazione – anche sul piano dei rimedi e della gestione efficace (ed enforceable) delle controversie – può infatti consentire l’adozione su larga scale della blockchain come tecnologia garante dei flussi documentali digitalizzati scambiati tra le parti di un rapporto, cosa di estrema importanza sia nel sempre più diffuso Internet of Things, sia appunto nella gestione delle filiere produttive, che con l’utilizzo di questa tecnologia possono essere più facilmente garantite anche da marchi collettivi e di certificazione, i quali rappresentano oggi valori aggiunti sempre più importanti per le imprese che se ne avvalgono, comunicando per il tramite di essi il proprio impegno su temi come l’etica e la sostenibilità.
Di questa tecnologia potranno dunque beneficiare, in modi diversi, tutte le filiere e non solo quelle dei prodotti agroalimentari ed in particolare di quelli rientranti nei disciplinari di DOP e IGP, tanto più in vista della ventilata adozione a livello di Unione Europea di un sistema analogo anche per le tipicità locali non agroalimentari. Proprio in tale prospettiva gli artt. 42-46 della nuova legge prevedono un “censimento” di queste tipicità e la predisposizione, ad opera delle “associazioni di produttori operanti in una determinata zona geografica” di “disciplinari di produzione”, potendo anche in questo caso attingere ad un apposito fondo “per le spese di consulenza di carattere tecnico, relativo alle qualità e alle caratteristiche specifiche del prodotto, sostenute per la predisposizione del disciplinare di produzione”.
I marchi degli enti culturali e le possibili sinergie con agroalimentare di qualità ed altre eccellenze produttive italiane
Rilevanti ricadute positive possono venire anche dall’art 22 della legge, che incoraggia “gli istituti e i luoghi della cultura” a “registrare, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, del codice della proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n.30, il marchio che li caratterizza” ed a “concedere l’uso del proprio marchio a terzi a titolo oneroso”, al duplice scopo di “incrementare la conoscenza del patrimonio culturale e la propria capacità di autofinanziamento”, come è in effetti già previsto per “le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni” dall’altra norma programmatica richiamata (l’art. 19 C.P.I.), che fa anzi riferimento allo “sfruttamento del marchio a fini commerciali, compreso quello effettuato mediante la concessione di licenze e per attività di merchandising”.
Queste disposizioni consentono infatti sia agli enti pubblici territoriali, sia agli enti culturali, sia ai Consorzi di tutela di utilizzare al meglio gli elementi simbolici del patrimonio culturale legati al loro territorio o alla loro istituzione come strumento per valorizzare tutte le esternalità positive legate alla fama di cui godono, non solo vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario di essa, ma anche – in positivo – consentendo loro di “monetizzare” questa fama, in particolare concedendo questi segni in uso alle imprese (in particolare a quelle operanti sul territorio ed impegnate in progetti di sviluppo sostenibile), naturalmente imponendo ad esse limiti precisi per evitare che i segni stessi divengano fonte di inganno, e quindi facendo anche da volano per la crescita di iniziative economiche legate al nostro territorio e per promuoverne l’immagine, in pari tempo promovendo quella di tali istituzioni culturali, effettuando operazioni di marketing su scala globale, appunto nella prospettiva di un rafforzamento reciproco di country image e corporate image abbinando eccellenze culturali e produttive del Paese.
Sia i segni distintivi degli enti culturali, sia i marchi territoriali, sia le DOP/IGP (e i corrispondenti marchi collettivi o di qualità destinati a proteggerle nei Paesi che non ne ammettono la protezione in quanto tali) si prestano infatti ad essere impiegati in:
i) operazioni di licensing mirato, non solo per prodotti di merchandising (come gadget o prodotti di lusso che possano rappresentarli, e oggi, anche token che li rappresentino “virtualmente”, inclusi i Non Fungible Token, anche di carattere artistico), ma anche per prodotti o servizi di tipologie non strettamente "commerciali" (per esempio, macchine utensili o prodotti industriali in genere) o, nel caso di DOP/IGP, per prodotti non corrispondenti a quelli tipici oggetto della DOP/IGP, che tuttavia presentino un legame col territorio in cui l’ente opera, in particolare (e preferibilmente) in quanto realizzati almeno in parte nel territorio stesso, o legati a una craftmanship che l’ente incoraggi, e più in generale per i quali l'uso dei segni dell’ente, magari insieme al marchio, possa costituire un valore aggiunto, specie sui mercati internazionali;
ii) operazioni di co-branding con soggetti terzi (si pensi ad esempio alla partnership già esistente “Franciacorta e Alitalia”), finalizzati alla promozione reciproca dei segni di interesse anche all’estero, sfruttando il valore evocativo del nostro Paese e delle sue eccellenze, culturali e produttive, specie se abbinate tra loro;
iii) creazione di sinergie con gli operatori turistici, alberghieri e della ristorazione stanziati nei luoghi di interesse e interessati a sfruttare lecitamente i segni oggetto del progetto;
iv) realizzazione di eventi promozionali e/o culturali all’estero sempre in ottica promozionale reciproca, dei segni territoriali e di quelli dei soggetti licenziatari o co-branders.
In questo modo è possibile immaginare sinergie tra enti e/o consorzi ed imprese, che si traducano in percorsi di business in prospettiva globale, essendo i mercati stranieri (e specialmente i nuovi grandi mercati aperti dalla globalizzazione, come quello cinese) quelli sui quali il richiamo delle tipicità italiane assume il massimo potere attrattivo. Proprio gli studi economici hanno infatti messo in luce che la relazione tra successo delle imprese e dei prodotti di un Paese e reputazione di tale Paese non è unilaterale, ma bilaterale, mostrando come anche la corporate image delle imprese di uno Stato possa influire sulla country image, nel senso che l’attitudine verso un Paese può cambiare a seconda dell’evoluzione di immagine percepita che i prodotti e le imprese – ma anche i beni e le imprese culturali – di quel Paese hanno presso i consumatori e viceversa.
Come ha confermato anche una recente ricerca Makno, se è vero che per un Paese come l’Italia il valore economico prodotto dalla cultura è sempre più rilevante, in pari tempo lo è altrettanto che il sistema cultura, per essere realmente produttivo sul piano economico, e influire positivamente sulla country image, di cui tutte le imprese di un determinato territorio possono beneficiare, ha bisogno di essere messo in rete, accompagnato da servizi di supporto e valorizzato con scelte strategiche.
La proprietà intellettuale può quindi consentire non solo di elaborare strategie di marketing che sfruttino al meglio il country of origin effect del nostro Paese – che è strettamente legato in una parte rilevante proprio ai suoi valori culturali – con la sua grande bellezza artistica e paesaggistica, con le sue straordinarie istituzioni culturali, con la sua storia, con la cultura enogastronomica, la moda e il design, aspetti per i quali l’Italia è in tutto il mondo simbolo di qualità della vita –, ma anche di realizzare progetti che rafforzino questa immagine, coinvolgendo all’interno di essa anche le imprese di eccellenza del nostro Paese operanti non solo nei settori appena ricordati, ma anche in quelli più innovativi, come il biomedicale, la meccanica, la meccatronica, l’intelligenza artificiale, spesso tra l’altro applicate anzitutto proprio ai settori che con la vita hanno a che fare, e con tutto l’indotto che queste attività creano.
Il potenziamento della lotta alla contraffazione
Infine la nuova legge comprende un nucleo di modifiche alle norme in materia di contraffazione, piccolo (gli artt. 49-56), ma di impatto potenzialmente considerevole.
Rilevanti sono anzitutto le disposizioni degli arttt. 53-54, il secondo dei quali semplifica la redazione del verbale di sequestro delle merci contraffattorie, mentre il primo ne rende più agevole la distruzione anticipata senza attendere la fine del processo, prevedendo tra l’altro che essa possa avvenire “anche su richiesta … della persona offesa”, e che vada disposta tra l’altro “quando risulti evidente la violazione”, facendo salva solo la conservazione di campioni per esigenze istruttorie: si tratta di una misura fortemente sostenuta da INDICAM (Associazione italiana per la tutela della proprietà intellettuale), che consegue il duplice obiettivo di ridurre i costi di conservazione delle merci sequestrate e di evitare il rischio che esse ritornino in circolazione.
Al dichiarato fine “di rafforzare l'efficacia deterrente delle sanzioni pecuniarie a carico degli acquirenti di merci contraffatte e di garantire un maggiore coinvolgimento degli enti locali nella lotta alla contraffazione nei rispettivi territori”, l’art. 52 della legge eleva tali sanzioni da 100 a 300 Euro, importo che aumenta la funzione di deterrenza della norma, pur mantenendola nell’ambito dell’accettabilità sociale, e soprattutto attribuisce per l’intero i relativi proventi agli enti territoriali competenti. Sempre per rafforzare l’effetto deterrente delle sanzioni in materia di contraffazione, l’art. 56 stabilisce che “Nei casi di condanna per i reati in materia di contraffazione previsti dall'articolo 4, comma 3, nel valutare la pericolosità dello straniero per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato … ai fini dell'adozione del provvedimento di revoca o di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, si tiene conto della collaborazione prestata dallo straniero all'autorità di polizia o all'autorità giudiziaria, durante la fase delle indagini ovvero anche dopo la condanna”, istituendo una sorta di meccanismo premiale, diretto a favorire “l'identificazione dei soggetti implicati nella produzione e distribuzione dei prodotti o dei servizi che costituiscono violazione dei diritti di proprietà industriale nonché per l'individuazione dei beni contraffatti o dei proventi derivanti dalla violazione dei diritti di proprietà industriale”, ossia a risalire alle origini della filiera della contraffazione ed a colpirla nella sua capacità di generare profitti illeciti.
In base all’art. 55 della nuova legge, anche per la contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (art. 517-quater c.p.), come già per quella dei marchi e degli altri segni distintivi, sarà ammesso il ricorso alle operazioni sotto copertura di cui all’art. 9 della Legge n. 146 del 2006. Parimenti l’art. 49 equipara la contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari a quella dei marchi e degli altri segni distintivi ai fini dell’attribuzione di essa all'ufficio del pubblico ministero presso il Tribunale del capoluogo del distretto, unico embrione di specializzazione in sede penale, cui si affianca (art. 50) la possibilità di includere “specifiche aree tematiche, inerenti al contrasto, in sede civile e penale, della contraffazione di titoli di proprietà industriale” tra le materie di formazione specialistica dei Giudici: non sono invece state previste, nonostante fossero state ventilate, né la concentrazione delle competenze in materia di proprietà intellettuale, civili e penali, in un numero ristretto di sedi, né, soprattutto, l’abolizione per le Sezioni Specializzate della regola che limita a dieci anni il periodo massimo di permanenza di un Magistrato nella sezione, regola che disperde un importante patrimonio di esperienze e di conoscenze in materie che le richiedono invece in massimo grado.